lunedì 9 gennaio 2012

Bauman: Utopia

rota-di-fortunaQuando Thomas More coniò il termine Utopia, per descrivere il suo modello di un mondo purificato dalle insicurezze e dalle paure incontrollate, si servì contemporaneamente di due parole greche: eutopia, che vuol dire “buon luogo” e outopia “nessun luogo”.
Nel saggio che conclude Modus vivendi- Inferno e utopia del mondo liquido, Bauman cerca di chiarire quale sia il valore dell’utopia nel mondo delle incertezze.
Cita un’autorità in materia di utopia, Oscar Wilde:
Una carta geografica del mondo che non comprenda Utopia non merita neanche uno sguardo, giacchè lascia fuori l’unico paese al quale l’umanità approda di continuo. E quando l’Umanità vi arriva guarda altrove, e scorgendo un paese migliore, alza le vele e riparte. Il progresso è la realizzazione delle Utopie.
E poi prosegue e confuta le affermazioni del meraviglioso modernista inglese, cercando di coniugare progresso e utopia.
[I]l progresso è stato una caccia alle utopie, non la realizzazione delle utopie. Le utopie hanno svolto il ruolo della lepre meccanica, inseguita ferocemente ma mai raggiunta dai cani da corsa.
[N]ella maggior parte dei casi, il movimento chiamato “progresso” è stato più uno sforzo per allontanarsi dalle utopie fallite che uno sforzo per raggiungere utopie non ancora sperimentate; scappare dal “meno bello del previsto”, piuttosto che partire dal “buono” per arrivare al “meglio”; uno sforzo stimolato dalle frustrazioni passate anziché dalla felicità futura. Le realtà che venivano dichiarate “realizzazioni” delle utopie si rivelavano il più delle volte orribili caricature dei sogni, lontane dal paradiso vagheggiato. La ragione irrefrenabile che spingeva ad “alzare le vele e ripartire” un’altra volta era l’avversione per ciò che era stato fatto, non l’attrazione per ciò che avrebbe potuto ancora essere fatto.
Fin qui ha dominato, e forse tuttora domina, l’utopia del cacciatore, sempre in cerca di potenziali trofei e sempre pronto ad uccidere, in una realtà dove per lui non si esauriscono i boschi ricchi di selvaggina.
Al cacciatore Bauman contrappone la figura del giardiniere, che si prende a cuore il compito di rendere il mondo migliore.
Il giardiniere presuppone che nel mondo non ci sarebbe alcun ordine se non fosse per la sua attenzione e i suoi sforzi costanti. Il giardiniere sa quali tipi di piante devono crescere e quali no nel terreno affidato alle sue cure. Dapprima elabora nella sua testa la disposizione migliore, e poi provvede a trasformare questa immagine in realtà. Impone al terreno il suo progetto precostituito, incoraggiando la crescita dei tipi di piante giusti ed estirpando e distruggendo tutte le altre, adesso ribattezzate “erbacce”, la cui presenza non richiesta e non desiderata non si accorda con l’armonia generale del disegno. Sono i giardinieri i più appassionati ed esperti fabbricanti di utopie.
A questo punto però s’insinua una provocazione: cosa sa fare il giardiniere al di fuori del suo giardino?
Nei sogni contemporanei l’immagine del progresso sembra aver smesso di esprimere il concetto di miglioramento collettivo, passando a significare sopravvivenza individuale.
Il progresso non è più concepito nell’ottica di uno stimolo a spingersi in avanti, ora è associato a uno sforzo disperato per rimanere a galla.
Quando sentiamo che “i tempi corrono”, tendiamo ad aver paura di essere lasciati indietro, di non trovare posto al prossimo turno di “gioco delle sedie”.
Ormai il gioco più popolare del momento si chiama fuga. Dal punto di vista semantico, la fuga è esattamente l’opposto dell’utopia, ma dal punto di vista psicologico è, nelle circostanze attuali, il suo unico sostituto disponibile: si potrebbe dire che è la nuova versione del’utopia, riadattata a misura della nostra deregolamentata e individualizzata società.
Non si può rendere veramente sicuro quel posto migliore nel mondo che forse qualcuno di noi è riuscito a ritagliarsi individualmente. L’insicurezza c’è e resterà.
Il dolore che prima era causato dalle indebite limitazioni alla scelta, ora è stato sostituito da un dolore non meno intenso, anche se provocato questa volta dall’obbligo di scegliere senza credere nelle scelte fatte e senza la convinzione che ulteriori scelte possano rendere più vicino il raggiungimento dell’obiettivo.
Bauman dà al suo saggio un finale aperto, perché, se di fine dell’utopia si tratta, questo è un dramma incompiuto e senza copione, con la sua trama ancora da svolgere.
Echeggiano le parole efficaci di Marco Polo, da Le Città invisibili di Italo Calvino.
L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
cfr. Z. Bauman, L’utopia nell’età dell’incertezza in: Modus vivendi- inferno e utopia del mondo liquido, 2006 (trad. ital. 2007), pp.107-126.
mercoledì, 12 ottobre 2011

Bauman: Amore liquido / 2

3etàdelladonnaProsegue la sintesi sull’elaborazione di Zygmunt Bauman in merito alla fragilità dei legami affettivi. Il terzo e quarto capitolo sono incentrati sulle difficoltà di aggregazione e di reciproca comprensione. Il post è concluso con una citazione di Hannah Arendt, scelta da Bauman, dedicata al concetto di umanizzazione attraverso il discorso.

Sulla difficoltà ad amare il prossimo
Amare il prossimo può richiedere un atto di fede; il suo risultato, tuttavia, segna l’atto di nascita dell’umanità. Segna anche il fatidico passaggio dall’istinto di sopravvivenza alla moralità.
Forse amare il prossimo non è un elemento di base dell’istinto di sopravvivenza, ma neanche l’amore di sé, scelto da modello di amore per il prossimo, lo è.
Altri devono amarci. Come facciamo a sapere che non siamo stati snobbati o scartati come un caso senza speranza; che l’amore c’è, potrebbe venire, verrà; che ne siamo degni e che quindi abbiamo il diritto di gustare e indulgere all’amour de soi? Lo sappiamo, crediamo di saperlo, e veniamo rassicurati sul fatto che tale convinzione non sia errata, quando gli altri ci parlano e ci ascoltano. Quando ci ascoltano con attenzione, con un interesse che tradisce e segnala una disponibilità a rispondere. In questi casi, recepiamo che siamo rispettati. Riteniamo, cioè, che ciò che pensiamo, facciamo o intendiamo fare sia rilevante.
Il punto in questione non è soltanto che la dignità della vita e il rispetto dovuto all’umanità di ciascun essere umano si mescolano e costituiscono un valore supremo che non può essere surclassato o rimpiazzato da qualsivoglia volume o quantità di altri valori; ma anche che tutti gli altri valori sono valori solo nella misura in cui sono al servizio della dignità umana e ne promuovono la causa. Tutte le cose di valore nella vita umana non sono altro che tanti piccoli buoni d’acquisto con i quali comprare quel singolo valore che rende la vita degna di essere vissuta. Colui che cerca di sopravvivere uccidendo l’umanità contenuta in altri esseri umani sopravvive alla morte della sua stessa umanità.
In un gioco di sopravvivenza, la fiducia, la compassione e la pietà sono armi suicide. Se non ti dimostri più duro e spietato di tutti, altri ti faranno fuori e senza tanti rimorsi. Siamo così tornati all’assennata verità del mondo darwiniano: è il più adatto che sopravvive. O piuttosto, la sopravvivenza è la prova ultima di adattabilità.

Oggi il mondo sembra cospirare ai danni della fiducia. Rapporti elastici e facilmente revocabili si basano sulla sospensione o sulla cancellazione della fiducia, anziché sulla sua incondizionata e spontanea concessione.

L’incertezza è l’humus naturale della persona morale e l’unico terreno dal quale la moralità può germogliare e fiorire.

Prossimità ed estraneità

Qualunque cosa accada alle città nella loro storia, e per quanto drasticamente il loro aspetto, stile e struttura geografica possano cambiare nel corso degli anni o dei secoli, un tratto resta costante: le città sono spazi in cui degli estranei vivono e operano in stretta e reciproca prossimità.

In quanto componente perenne della vita cittadina, la perpetua e onnipresente contiguità di estranei aggiunge un bel po’ di perpetua incertezza agli orizzonti di vita di tutti i residenti urbani. Tale presenza, impossibile da evitare per più di un fugace momento, è una fonte perenne di ansia e di un’aggressività solitamente sopita, ma che tanto in tanto potrebbe esplodere.

La diffusa, anche se subliminale, paura dell’ignoto è alla disperata ricerca di vie d’uscita credibili. Le ansie accumulate tendono a essere scaricate contro la categoria degli “alieni”, elevata a epitome dell’estraneità, della non familiarità, dell’opacità dello scenario di vita, dell’indeterminatezza del rischio e della minaccia in quanto tali. Quando una categoria scelta di “alieni” viene cacciata via da case e negozi, il terrificante spettro dell’incertezza viene, per qualche tempo, esorcizzato; l’orripilante mostro dell’insicurezza viene bruciato in effige. Barriere di confine accuratamente elette contro “falsi profughi” e immigrati “meramente economici” portano la speranza di poter fortificare un’esistenza fragile, erratica e imprevedibile. Ma la vita liquido-moderna è destinata a restare erratica e capricciosa qualunque azione si intraprenda contro gli “estranei indesiderabili”, e dunque il sollievo è effimero, e le speranze risposte nelle “misure forti e definitive” svaniscono un secondo dopo essere state adottate.

L’estraneo è, per definizione, un agente mosso da intenzioni che si possono nella migliore delle ipotesi immaginare, ma mai conoscere per certo. L’estraneo è un’incognita in tutte le equazioni calcolate allorquando occorre decidere cosa fare e come comportarsi; e dunque anche quando non diventano oggetti di esplicita aggressione e non vengono apertamente rifiutati la loro presenza dentro il campo d’azione continua a destare inquietudine, in quanto vanifica il compito di predire gli effetti dell’azione e le sue chance di successo o fallimento.

Condividere lo spazio con gli stranieri, vivere in stretta, non richiesta e non voluta prossimità con gli estranei è una condizione alla quale i residenti urbani trovano difficile, forse impossibile, sfuggire. La contiguità con gli estranei è il loro destino, e occorre sperimentare, provare, collaudare e trovare un modus vivendi per rendere la coabitazione gradevole e la vita vivibile. Questo imperativo è “dato”, non negoziabile; ma il modo in cui i residenti urbani cercano di ottemperarvi è una questione di scelta. E quella scelta viene fatta quotidianamente – per commissione od omissione, automaticamente o programmaticamente.

Ghetti

Il recinto separa il “ghetto volontario” dei ricchi e potenti dai tanti ghetti coatti dei poveri e derelitti. Per gli abitanti del ghetto volontario, gli altri ghetti sono spazi “in cui non vogliamo entrare”. Per gli abitanti dei ghetti involontari, l’area in cui sono confinati è lo spazio “da cui non possiamo uscire”.
Comunità di similitudine
L’impulso verso una “comunità di similitudine” è un segnale di ritirata non soltanto dall’alterità all’esterno, ma anche dall’impegno all’interazione svolta all’interno, energica anche se turbolenta, corroborante anche se impegnativa. L’attrattiva di una “comunità di identicità” è quella di una polizza assicurativa contro i rischi di cui la vita quotidiana in un mondo plurivocale è piena. Non riduce, e tanto meno elimina, i rischi. Come tutti i palliativi, promette solo un riparo da alcuni dei suoi effetti più immediati e più temuti.
Residenti urbani
Poiché gli estranei sono destinati a continuare a vivere in reciproca compagnia indipendentemente dalle contorsioni future della storia urbana, l’arte di vivere pacificamente e felicemente con la diversità e di beneficiare, indisturbati, della varietà di stimoli e opportunità assume un’importanza fondamentale tra le qualità che un residente urbano deve acquisire e profondere.
Gadamer: la fusione di orizzonti
Come è noto, Hans-Georg Gadamer ha affermato nel suo Verità e metodo che la reciproca comprensione è stimolata dalla “fusione di orizzonti”- orizzonti cognitivi, vale a dire orizzonti che vengono tracciati e ampliati nel processo di accumulo dell’esperienza di vita. La “fusione” che la reciproca comprensione richiede può essere soltanto il risultato dell’esperienza condivisa; e condividere l’esperienza è inconcepibile senza uno spazio condiviso.
Hannah Arendt, On humanity in dark times
Il mondo non è umano solo perchè è fatto di esseri umani, e non diventa umano solo perchè vi si ode la voce umana, ma solo quando è diventato l’oggetto del discorso […] Umanizziamo ciò che accade nel mondo e in noi stessi solo quando ne parliamo, e nel corso del nostro parlarne impariamo ad essere umani.
I greci definivano questa umanità che viene acquisita nel discorso dell’amicizia philantropia, “amore dell’uomo”, poiché si manifesta in una disponibilità a condividere il mondo con altri uomini.
Aprirsi agli altri è la pre-condizione dell’umanità in tutti i sensi della parola […]. Il dialogo realmente umano differisce dal mero parlare o finanche dalla discussione in quanto è interamente permeato dal piacere per l’altra persona e per ciò che dice.
martedì, 11 ottobre 2011

Bauman: Amore liquido / 1

the stormIl saggio sociologico di Bauman sulla fragilità dei legami affettivi risale al 2003. Stralcio dal libro le parti per me più importanti, pur sapendo di tralasciare, ad esempio, i passaggi relativi al consumo di relazioni intime usa e getta e all’architettura urbana. In questo momento mi interessano di meno, ma li ho letti e li segnalo comunque.
Questo post è relativo ai primi due capitoli. Alla definizione della natura dell’amore si contrappone la realtà delle relazioni surrogate. L’assurdo calcolo del Prodotto interno lordo, invece, non riesce a stimare il valore della rete di condivisione e di mutuo soccorso definita come “economia morale”.
La natura dell’amore
Nel Simposio di Platone, la profetessa Diotima di Mantinea fece notare a Socrate, il quale ne convenne, che “l’amore non è amore del bello, come tu credi […] ma generazione e procreazione nel bello”. Amare significa desiderare di “generare e procreare”, e dunque chi ama “quando si avvicina al bello diviene ilare, e nella sua letizia si effonde e procrea e genera”. In altre parole, non è nella brama di cose pronte per l’uso, belle e finite, che l’amore trova il proprio significato, ma nello stimolo a partecipare al divenire di tali cose. L’amore è simile alla trascendenza; non è che un altro nome per definire l’impulso creativo e in quanto tale è carico di rischi, dal momento che nessuno può mai sapere dove andrà a finire tutta la creazione.
In ogni amore ci sono almeno due esseri, ciascuno dei quali è la grande incognita nell’equazione dell’altro. E’ questo che fa percepire l’amore come un capriccio del destino: quello strano e misterioso futuro, impossibile da predire, prevenire o evitare, accelerare o arrestare. Amare significa offrirsi a quel destino, alla più sublime di tutte le condizioni umane, una condizione in cui paura e gioia si fondono in una miscela che non permette più ai suoi ingredienti di scindersi. E offrirsi a quel destino significa, in ultima analisi, l’accettazione della libertà nell’essere: quella libertà che è incarnata nell’Altro, il compagno in amore. Come afferma Erich Fromm, “la soddisfazione, nell’amore individuale, non può essere raggiunta senza la capacità di amare il prossimo con umiltà, fede e coraggio”, per poi aggiungere che “in una cultura in cui queste qualità sono rare, l’acquisizione della capacità di amare è condannata a restare un successo raro”. (p. 10-11)
La prossimità virtuale
La distanza topografica, la distanza reale, è diventata, grazie alle connessioni elettroniche, prossimità virtuale.
L’altra faccia della medaglia della prossimità virtuale è la distanza virtuale, cioè la sospensione, forse finanche cancellazione, di tutto quanto ha trasformato la vicinanza topografica in prossimità. La prossimità non richiede più la vicinanza fisica, ma la vicinanza fisica non determina più la prossimità.
Si discute su quale faccia della medaglia abbia maggiormente contribuito a rendere la rete elettronica e i suoi dispositivi di entrata e uscita una valuta così diffusa, e avidamente usata, di interazione umana. E’ stata la neo acquisita facilità a connettersi? Oppure è stata la neo acquisita facilità a interrompere la connessione? Non mancano certo le occasioni in cui la seconda appare più urgente e più importante della prima.
L’avvento della prossimità virtuale rende le connessioni umane al contempo più frequenti e più superficiali, più intense e più brevi. Le connessioni tendono a essere troppo superficiali e brevi per condensarsi in legami. Incentrate sull’attività in corso, esse sono protette dal pericolo di tracimare e coinvolgere i partner in qualcosa che va al di là del tempo necessario a comporre e leggere un messaggio e dell’argomento in esso contenuto. Occorre meno tempo e fatica tanto per creare contatti quanto per romperli.
La distanza non è un ostacolo al tenersi in contatto; ma il tenersi in contatto non è un ostacolo all’essere distanti.
Sembra che la conseguenza più feconda della prossimità virtuale sia la separazione tra comunicazione e relazione. Diversamente dalla vicinanza vecchio stile, la vicinanza virtuale non richiede che i legami siano già stabiliti, né ha come conseguenza necessaria di stabilirli.
La prossimità virtuale riduce la pressione che la vicinanza non virtuale ha l’abitudine di esercitare. Detta anche il modello per qualunque altra forma di prossimità. Oggi qualunque forma di prossimità misura i propri pregi e difetti in base agli standard della prossimità virtuale.
Le case si sono trasformate, da cortili ricreativi fatti di amore e di amicizia in campi di schermaglie territoriali, da siti dove si crea aggregazione in un condensato di bunker fortificati. “Siamo entrati nella nostra residenza monofamiliare e abbiamo chiuso la porta, quindi siamo entrati nella nostra stanza personale e abbiamo chiuso la porta. La casa diventa un centro ricreativo polifunzionale in cui membri della famiglia possono vivere, uno a fianco all’altro separatamente” (Schulter & Lee, The R Factor, London 1993, p. 15 e 37).
La solitudine, dietro la porta chiusa di una stanza privata, con un telefono cellulare a portata di mano, può apparire una condizione molto meno rischiosa e ben più sicura che non condividere lo spazio comune dell’intera famiglia. (cfr. pp. 86-90)
Il Pil, la presunta chiave di felicità per tutti
Il Prodotto interno lordo misura, in pratica, la quantità totale di denaro speso da ciascuno. Farne un feticcio politico significa assumere che la somma totale della felicità umana cresca in modo direttamente proporzionale alla quantità di denaro che passa di mano.
Non fa alcuna differenza dove questo denaro finisca e perché: peccato, perché osserveremmo le entrare voluminosissime dell’industria alimentare da una parte, e dei prodotti dimagranti dall’altra, delle industrie legate al petrolio e dei farmaci che curano i problemi delle vie respiratorie causati dall’inquinamento. E’ impossibile misurare con esattezza l’enorme e crescente contributo all’aumento del Pil offerto dallo stress e dai problemi legati alle preoccupazioni del consumatore liquido-moderno.
In una società di mercato il denaro passa di mano in ogni specie di occasione. Un incidente stradale, un divorzio, una città da ricostruire dopo il terremoto alzano il prodotto interno lordo, negando la rilevanza del rapporto tra ricchezza nazionale e benessere collettivo e individuale. (cfr. pp.91ss)
L’economia morale
L’elemento più marcatamente assente nel calcolo economico dei teorici è quella che è stata definita “economia morale”: la condivisione materiale di beni e servizi, l’aiuto dei propri vicini, la cooperazione degli amici, cioè tutte le strategie, pulsioni e azioni di cui sono intessuti i legami umani e gli impegni durevoli.
E’ grazie alla valvola di sicurezza dell’economia morale che le tensioni generate dall’economia di mercato si fermano un po’. Se non fosse per l’intervento correttivo, mitigante, lenitivo e compensatore dell’economia morale, l’economia di mercato manifesterebbe il proprio impulso autodistruttivo.
Una comunità, un quartiere, una cerchia di amici, compagni di vita e compagni per la vita: un mondo in cui solidarietà, compassione, partecipazione, aiuto reciproco e reciproca simpatia sospendono o rifiutano la scelta razionale e il perseguimento dell’auto-interesse, nel costante, incessante comune sforzo di costruire una vita partecipativa e di renderla vivibile.
L’invasione e colonizzazione del luogo dell’economia morale ad opera delle forze del mercato consumistico rappresenta il più grave dei pericoli che minacciano l’odierna forma di aggregazione umana.
Il venir meno delle doti di socialità è stimolato e accelerato dalla tendenza, ispirata dal dominante modo di vita consumistico, a trattare gli altri esseri umani come oggetti di consumo e a giudicarli sul modello degli oggetti di consumo in base alla quantità di piacere che possono offrire, e in termini di “giustificazione economica dell’investimento”. Nella migliore delle ipotesi, gli altri sono valutati come compagni d’avventura nell’attività del consumo essenzialmente solitaria; soci nelle gioie del consumo, la cui presenza e attiva partecipazione può forse accrescere tali piaceri. In tutto questo processo, il valore intrinseco degli altri in quanto esseri umani unici (e dunque anche l’attenzione per gli altri in quanto tali e come espressione di tale unicità) è andato completamente smarrito. La solidarietà umana è la prima vittima dei trionfi del mercato dei consumi. (cfr. pp.96-105)

Zygmunt Bauman, Amore liquido, 2003 (trad. ital. 2004)
lunedì, 10 ottobre 2011

Altissima povertà

CaravaggioCRSabato mattina, su Radio 3, Giorgio Agamben ha parlato del suo ultimo libro "Altissima povertà", dedicato alle forme di vita proposta dalle regole monastiche, a partire dal IV-V secolo.
Nella storia, il rapporto tra potere e vita si è rispecchiato nel tentativo, da parte del potere, di separare la vita dalla sua forma. La vita monastica ha da subito costituito un tentativo di opposizione a questa separazione, essendo l'esperienza più rigorosa di costruzione di una forma di vita secondo un progetto comune. Le regole monastiche non hanno a che fare col diritto, perchè le regole si riferiscono all'intera esistenza, mentre il diritto si occupa di fatti e circostanze limitati. La vita monastica afferma il primato della vita sulla norma.
La vita comune, secondo Agamben, è superiore all'eremitaggio, perchè propone un progetto di vita politico e coerente. L'abito, ad esempio, per i monaci ha un nuovo significato. Esprime un modo di vita. La veste è interamente moralizzata: il cappuccio simboleggia l'innocenza infantile, il mantello l'umiltà. La scansione delle ore secondo l'interiorizzazione del ritmo temporale misura il tempo con la durata delle preghiere.
Il Diritto Canonico sente l'esigenza di distinguere il prete dal monaco, per tentare di venire a capo di quest'ordine di vita che tende a porsi fuori dal diritto, e vieta ai preti di abitare in convento.
Dall'anno mille, per un paio di secoli, si diffondono in Europa i movimenti pauperistici e vengono configurati come ereticali dalla chiesa.

Il culmine di questa fase è la figura di San Francesco d'Assisi. Secondo Francesco la povertà è lo strumento ascetico per regolare la vita. La povertà è la perfezione, e non uno strumento per la perfezione.

I francescani si oppongono al diritto in quanto tale, proponendo e praticando l'uso, ma non il possesso, delle cose, dimostrando che è possibile vivere al di fuori del diritto. L'uso è la dimensione del diritto alle cose, un uso fuori dal diritto. San Francesco desiderava vivere senza nulla di proprio, nemmeno la volontà. Afferma, primo e forse unico, una relazione col mondo in quanto inappropriabile.

Nel 1322 il Papa Giovanni XXII scomunica i capi del movimento francescano.
written by: Malfido time 08:33 | link | commenti (1)
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domenica, 09 ottobre 2011

Modernità liquida: comunità

oh-Paradosso del comunitarismo: le comunità sono presunte

Nella misura in cui devono essere difese per sopravvivere e devono appellarsi ai propri membri affinché garantiscano tale sopravvivenza grazie alle loro scelte individuali e si assumano la responsabilità individuale di quella sopravvivenza, tutte le comunità sono presunte; sono progetti più che realtà, qualcosa che viene dopo, non prima, della scelta individuale.
-La nuova fragilità dei legami umani
Una delle conseguenze più salienti del venir meno delle vecchie sicurezze è la nuova fragilità dei legami umani. L’instabilità e transitorietà di tali legami potrebbe essere l’inevitabile prezzo da pagare per il diritto degli individui di perseguire i propri singoli obiettivi, e tuttavia non può che essere al contempo un formidabile ostacolo a un loro perseguimento efficace e al coraggio necessario per perseguirli.
-Comunità e identità
Nel momento in cui la comunità crolla viene inventata la nozione di identità.
-Il riparo comunitario nasce dalla paura
L’armonia interna del mondo comunitario brilla e risplende rispetto all’oscura e intricata giungla che inizia appena al di là dal cancello. E’ lì, in quella giungla selvaggia, che tutte le persone accalcate al calduccio dell’identità comune scaricano (o sperano di eliminare) le paure che le hanno spinte a cercare un riparo comunitario. Il desiderio di comunità è un desiderio di difesa. Il “noi” è un atto di autoprotezione.
-Nazionalismo e patriottismo
Il nazionalismo sbarra la porta e stacca il campanello, dichiarando che solo chi è all’interno ha il diritto di trovarsi lì e sistemarsi a dovere. Il patriottismo è, almeno apparentemente, più tollerante, aperto e socievole: scarica la responsabilità su quanti chiedono ammissione. E tuttavia il risultato finale è spesso straordinariamente simile.
-Il punto giusto
è una società civile intrinsecamente pluralistica. Il vivere insieme in tale società significa negoziazione e conciliazione di interessi naturalmente diversi, perché di norma è meglio conciliare interessi diversi che reprimerli e opprimerli all’infinito. Il pluralismo della società civile moderna dovrebbe servire a moltiplicare le possibilità di una vita più piacevole rispetto alle condizioni che potrebbe offrire una qualsiasi delle sue alternative.
L’ampliamento e il radicamento delle libertà umane possono accrescere la somma totale di sicurezza dell’uomo. La libertà e la sicurezza possono aumentare di pari passo e possono crescere solo se congiuntamente.
-Il corpo
è diventato l’ultimo rifugio e santuario di continuità e durata. Il confine tra il corpo e il mondo esterno è una delle frontiere odierne maggiormente vigilate.
-La nuova solitudine del corpo e della comunità
è il risultato di un’ampia serie di pregnanti mutamenti riassunti sotto la voce della modernità liquida. Di tali mutamenti il più importante è la rinuncia, l’eliminazione graduale o la svendita da parte dello Stato di tutti i maggiori strumenti inerenti il suo ruolo principale di dispensatore di certezza e sicurezza, cui ha fatto seguito il rifiuto di soddisfare le aspirazioni di certezza e sicurezza dei suoi cittadini.

Cfr, op. cit., pp, 196-238
written by: Malfido time 11:10 | link | commenti
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sabato, 08 ottobre 2011

Modernità liquida: lavoro

tsqIl concetto di progresso esprime una dichiarazione di fede nel presente, ed esprime anche che per dominare il futuro occorre avere in pugno il presente.
nell’epoca della modernità liquida la fiducia è instabile e traballante, a causa dell’assenza di un organismo capace di “far avanzare il mondo”. La domanda è: Che fare al fine di rendere il mondo migliore? Ma soprattutto, Chi lo farà?
Oggi viaggiamo senza avere alcuna idea della meta finale. Nel tempo che stiamo attraversando il progresso ormai è stato deregolamentato e privatizzato. I porti sicuri a disposizione della fiducia sono pochi e distanti fra loro. Ad un ordine deterministico si è sostituito il disordine del caso.
La metafora del labirinto è ancora attuale: di un luogo oscuro in cui la rete di strade potrebbe non ubbidire ad alcuna legge. Dentro il labirinto regnano il caso e la sorpresa.
Il lavoro è allora scivolato da un universo fatto di costruzione dell’ordine e controllo del futuro a regno del gioco.
Le azioni in materia di lavoro sono più simili alla strategia di un giocatore che sa che ciò che conta è l’effetto immediato prodotto da ciascuna mossa. E’ un mondo fatto di ponti troppo distanti tra loro, il mondo del lavoro: si lavora una tantum, cogliendo un’occasione al volo. Si lavora mettendo insieme i resti di ciò che è rimasto da una lavoro precedente, come nel bricolage. Il lavoro non fa più da perno alla definizione di identità e progetti. Non è più, purtroppo, il fondamento etico della società.
L’ economia politica è una scienza recentissima, posteriore alla Seconda Rivoluzione Industriale. L’industrializzazione, dando un’impennata ai redditi, crea l’inuguaglianza globale. Nella società pre-industriale, la terra rappresentava l’unità di lavoratori e mezzi di sussistenza .
Nell’industria il lavoro è pari alla merce e come tale viene (con)trattato. Per la prima volta nel’industria i lavoratori hanno la libertà di essere ricollocati, riaccordati. Svanisce il legame naturale tra terra, fatica umana e ricchezza.
il lavoro è una fonte di ricchezza e come tale va sfruttato.
Henry Ford raddoppia i salari dei suoi operai per far si che il denaro investito per il loro addestramento frutti, cioè per inserire ritmi di lavoro più serrati.
Il capitale e il lavoro nell’epoca del capitalismo pesante, erano uniti, nel bene e nel male. Lo stato assistenziale era un sostegno a mantenere lavoro e capitale vivi e vegeti.
Oggi, la nuova mentalità a breve termine divide anziché unire. E’ l’epoca dei legami deboli. Il capitalismo leggero è caratterizzato dal disimpegno e dall’allentamento dei legami che uniscono capitale e lavoro.
Tra capitale e lavoro si è passati dal matrimonio, legame di reciproco accordo e di mutua dipendenza, alla convivenza, la reciproca autonomia e libertà di movimento. Il capitale in passato non poteva nemmeno sognare una tale libertà di movimento.
La minaccia di rompere i legami locali e spostarsi da qualche altra parte è qualcosa che qualsiasi governo responsabile, a salvaguardia propria e del proprio elettorato, non può non tenere nella massima considerazione, e a cui non può non tentare di porre riparo subordinando le proprie politiche a tal fine.
Oggi la politica è diventata, in misura senza precedenti, un tiro alla fune tra la velocità di movimento del capitale e le funzioni “a rilento” dei poteri locali, e sono quasi sempre questi ultimi ad avvertire la sensazione di combattere una guerra impossibile da vincere. Un governo dedito al benessere del proprio elettorato non ha altre speranze che implorare e sedurre –anziché costringere- il capitale a entrare e, una volta entrato, a trattarlo con tutti i riguardi. E ciò si può fare, o tentare di farlo, creando le condizioni migliori per la libertà d’impresa, il che significa adattare il gioco della politica alle regole della “libera impresa”, vale a dire smantellare e demolire le ancora esistenti leggi e statuti “che ostacolano la libera impresa”, in modo che la promessa del governo di non utilizzare i propri poteri di regolamentazione per limitare la libertà del capitale diventi credibile e convincente: astenersi da qualsiasi mossa possa dare l’impressione che il territorio politicamente amministrato dal governo sia inospitale a tali utilizzi, aspettative e future iniziative, o lo sia meno dei territori amministrati dai governi adiacenti. In pratica, tutto ciò significa meno tasse, meno o nessuno regola, e, soprattutto “un mercato del lavoro flessibile”. Più in generale significa una popolazione docile, incapace e incurante di opporre una resistenza organizzata a qualsiasi decisione il capitale possa prendere. Paradossalmente, i governi possono sperare di trattenere il capitale solo convincendolo al di là di ogni ragionevole dubbio che esso è libero di andare via, anche con strettissimo o nessun preavviso.
Le Borse valori e i Consigli di Amministrazione premiano i passi compiuti nella direzione di snellimenti, ridimensionamenti e scorporamenti.
I lavoratori di routine sono quelli più facili da smaltire, sostituire. Il loro morale e le loro motivazioni sono così calati da averli resi acritici e indifferenti.
L’etica del lavoro secondo Max Weber era basata sulla procrastinazione, sul ritardo della gratificazione. Accumulare capitale significava preferire la fase di aratura e semina piuttosto che la raccolta e il consumo dei prodotti. Ora non solo il lavoro è fine a se stesso. Vi è pure un’estetica del consumo, per la quale il consumo è la gratificazione da non ritardare più. Tale gratificazione, tra l’altro, non deve durare molto, essere sia una medicina che un veleno, per non ostacolare i successivi consumi.
Ormai è fondato il sospetto che la disoccupazione nei paesi ricchi sia diventato un fenomeno strutturale, per cui nessuno può sentirsi garantito. Perciò, in assenza di una sicurezza di lungo periodo, la gratificazione immediata appare un buon motivo e una strategia ragionevole. La procrastinazione del soddisfacimento ha perso il suo fascino.
Porsi obiettivi distanti, ignorare l’interesse privato per accrescere il potere del gruppo e sacrificare il presente in nome di una felicità futura non sembra una prospettiva attraente e neanche sensata. Ogni occasione mancata è persa, e mancarla diventa qualcosa di imperdonabile e indifendibile.
E così la politica della precarizzazione del lavoro si ritrova aiutata, spalleggiata, rinforzata nei suoi effetti dalle politiche della vita, siano esse accolte deliberatamente o per inerzia.
Legami e unioni sono diventati oggetti di consumo, e come tali non sono più da costruire, ma da consumare.
Il mondo è diventato un aggregato di prodotti per il consumo immediato.
Il tratto distintivo della società è la fiducia in sé, negli altri e nelle istituzioni. Il crollo della fiducia porta ad una minore propensione all’impegno politico e all’azione collettiva. Un pensiero “trasformativo” ha bisogno della capacità di fare proiezioni future. Difficile, per chi non ha il controllo del proprio presente.

Cfr. op. cit., pp. 148-195

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