martedì 10 gennaio 2012

lunedì, 22 agosto 2011

Il Poligono

ponte di lodiTra la laurea e l'inizio del lavoro a scuola ci sono stati dei mesi in cui ho fatto un po' di tutto. L'ARCI Bellezza di Milano aveva organizzato un corso per giovani aspiranti cantastorie con Franco Trincale. Ho scritto una manciata di testi, quello che ho scelto per la serata finale era dedicato a Rita, La Gilda del Mac Mahon, dal racconto di Testori. Poi, prima che venisse in mente a Camilleri, ho pensato a un testo dedicato a Giuda, intitolato "Il campo del vasaio"; senza sapere della Melato, dal racconto, ho scritto "La signorina senza rivoltella". Poi ricordo che mi è saltata in mente una ballata su quelli che organizzano i funerali,  e poi una da "Lettere ai prepotenti" di Antonin Artaud, e anche un testo, mai terminato, sulla fecondazione assistita.
 
Tra tutte queste produzioni, l'esperienza che ricordo meglio è il racconto dei Martiri del poligono di Lodi, una vicenda culminata tristemente il 22 Agosto 1944. Avevo letto i libri di Ercole Ongaro, avevo sentito la Marini e la Daffini, e avevo comprato quel libro di Tito, incontrato al corso, sulla canzone popolare italiana. 

Il poligono
Lodi, 22 Agosto 1944

Cosa rende sopportabile la vita
dopo quattro anni di guerra
l’idea di un domani migliore
liberi dall’oppressore.

E a Lodi il dieci luglio quarantaquattro
i ribelli han teso un’ imboscata
di sorpresa, in un attentato
il gerarca è stato ammazzato.

Si scatena la vile rappresaglia
portiam via tutta la famiglia
vendetta sulla popolazione
ancora questa è la ritorsione.

Prendono Oreste, il Falco Rosso, anni trentasei
con Ettore e Ludovico di vent’anni,
il 21 agosto, lungo l’Adda,
in un bosco verso il mio paese.

Mentre sono a tavola in silenzio
arrestati due cugini innocenti
Franco e Giancarlo, anni diciassette,
non avevano affatto precedenti.

Nella caserma di via San Giacomo
durante tutta la notte
fieri delle torture e delle botte
li fan mordere anche dai cani.

E alle tredici del giorno dopo
una corriera li viene a prelevare
con i militi del ploton d’esecuzione
e il prete della Maddalena.

C’è il sole al poligono di tiro
tra le urla strazianti delle madri
e questi fascisti codardi
sfidano tutti gli sguardi.

M’han bastonato come un animale
ma nel mio sguardo papà c’è  la vita
la vostra gioia, serenità e fatica
per darmi un’istruzione e una cultura.

Fratello mio non rimproverarmi
per la fine che mi tocca con le armi
Ma ricorda e cammina a testa alta
perché questo non accada un’altra volta.

Non mi lasciano vivere mamma
ma adesso vedi, io saprò morire
e voglio credere che questo sia il migliore
dei saluti che ti posso regalare.

Prega per gli amici uniti nella morte
benedetti ma senza funerale
per non permettere di partecipare
e sentirsi più forti nel dolore.

Quei corpi solcati dai denti
e bucati dai colpi di fucile
son portati al cimitero Maggiore,
il giorno dopo si schiodano le bare.

E i familiari danno l’ultimo saluto
ai martiri del poligono di Lodi
città bombardata che resiste
anche nel suo giorno più triste.




 

 
written by: Malfido time 10:00 | link | commenti (2)
sections: 08-professioni
domenica, 21 agosto 2011
Pare che il Governo intenda accorpare le festività al lunedì più vicino, in modo da evitare i ponti e accumulare più giorni di lavoro. Questo va ad aumentare il P.I.L., ed è dunque una misura anticrisi.
Quando si parla di aumento del P.I.L. penso che esso è schizzato dopo il terremoto a L'Aquila, perciò, nella mia ignoranza totale dei flussi economici, ho la basilare, e un po' superstiziosa, idea che parlare del P.I.L. è un discorso vagamente oscuro...
E poi davvero, mi dev'esser sfuggito qualcosa: se una festività cade di martedì, la si festeggerà il giorno precedente; a quel punto, chi ha deciso di fare il ponte, prenderà feria il martedì: cambierà dunque molto?
Comunque,  all'estero la gente è abituata ad andare al lavoro, indipendentemente da che sia, ad esempio, la vigilia di Natale, Marco lo dice sempre.
Però oggi m'interessa ragionare sul significato materiale e immateriale delle feste. Sarà che alle scuole elementari queste erano le tappe fondamentali del calendario, e credo che sia da lì che per me la cosa è rimasta viva.
La festività è tempo libero, ed è anche, soprattutto, tempo pieno, da dedicare all'attualizzazione della memoria e dell'identità collettive, alla liturgia religiosa e agli affetti. Queste particolari date fissano i momenti, le fasi significative dell’anno, dicendoci che tutti, lavoratori e studenti, bambini e anziani, scriviamo sullo stesso diario, sulla stessa agenda.
Le feste civili e religiose sono due modi diversi di misurare il tempo, di dare una scansione, una sostanza, al periodo vissuto, individualmente e collettivamente, secondo riferimenti etici e spirituali precisi, radicati, condivisi. Ad una società, ad una comunità, serve che ci siano momenti per soffermarsi a decidere e ad affermare in che modo vogliamo valutare, equilibrare, scandire, il tempo che abbiamo e ciò che esso contiene. In più, ognuno di noi sa che le festività sono strutturanti perché, che le si valorizzi o le si critichi, sono punti d’incontro tra le generazioni.
Come quando eravamo a scuola, per percepire la festa come un’opportunità, una circostanza, favorevoli al nostro riposo e alla nostra partecipazione, serve anche che questa sequenza sia ciclica, il meno possibile ridiscussa e rimaneggiata.
landscape_at_krumau
 
sabato, 20 agosto 2011

Beethoven possibilista

didoneNoi tutti consideriamo impensabile che l’amore della nostra vita possa essere qualcosa di leggero, qualcosa che non ha peso; riteniamo che il nostro amore sia qualcosa che doveva necessariamente essere; che senza di esso la nostra vita non sarebbe stata la nostra vita. Ci sembra che Beethoven, in persona, torvo e scapigliato, suoni al nostro amore il suo “Es muss sein!”
Tomáš ripensava ora a quell’osservazione di Tereza sull’amico Z., e constatò che dalla storia d’amore della sua vita non risuonava nessun “Es muss sein”, bensì un “Es könnte auch anders sein: poteva benissimo essere altrimenti.” p. 42 
written by: Malfido time 10:00 | link | commenti
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venerdì, 19 agosto 2011

L’eroe beethoveniano

rataconcettoQualsiasi studente nell’ora di fisica può provare con esperimenti l’esattezza di un’ipotesi scientifica. L’uomo, invece, vivendo una vita sola, non ha alcuna possibilità di verificare un’ipotesi mediante un esperimento, e perciò non saprà mai se avrebbe dovuto o no dare ascolto al proprio sentimento.
Così, a pagina 41, Kundera ribadisce quale sia secondo lui la radice del dubbio in merito alla leggerezza o alla pesantezza del vivere.
Il suo personaggio, invece, nel comunicare quasi con imbarazzo al direttore della clinica dove lavora la sua decisione di tornare a Praga all’improvviso, trova inaspettatamente in Beethoven l’alleato ideale per articolare il suo discorso. L’espressione tedesca “Es muss sein!”, resa celebre dall’ultimo movimento dell’ultimo quartetto di Beethoven, basta a presentare la situazione come capace di rendersi comprensibile da sé (ahimè in italiano traduciamo selbstverständlich col poco significativo ovvio).
A differenza di Parmenide, per Beethoven la pesantezza era a quanto pare qualcosa di positivo. “Der schwer gefasste Entschluss”, la grave risoluzione, è unita con la voce del Destino (“Es muss sein!”); la pesantezza, la necessità e il valore sono tre concetti intimamente legati tra loro: solo ciò che è necessario è pesante, solo ciò che pesa ha valore.
Questa convinzione è nata dalla musica di Beethoven e, benché sia possibile (per non dire probabile) che la responsabilità di essa ricada più sugli esegeti di Beethoven che sul compositore stesso, oggi la condividiamo più o meno tutti: la grandezza di un uomo risiede per noi nel fatto che egli porta il suo destino come Atlante portava sulle spalle la volta celeste. L’eroe beethoveniano è un sollevatore di pesi metafisici.
Tomáš si avvicinava al confine svizzero, e io mi immagino un Beethoven torvo e capelluto che dirige personalmente la locale banda dei pompieri e suona per lui, come addio all’emigrazione, una marcia intitolata Es muss sein!”
Milan Kundera, cit., pp.40-1 
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giovedì, 18 agosto 2011

Mitgefühl-Compassione / 2

Portrait-of-Wally-Schiele-1912-300x242Tomáš e Tereza si trasferiscono a Zurigo dopo l’invasione di Praga da parte dei carri armati russi. Passa del tempo, e poi Tereza abbandona il marito, con una lettera. Impotente di fronte alla scelta di Tereza, all’inizio Tomáš è abbastanza calmo: la fatica della relazione d’amore scompare, e ne rimane solo la bellezza, la malinconia dolcissima delle cose belle da ricordare.
In quei bei giorni di malinconia la sua compassione (questa maledizione della telepatia sentimentale) si era riposata. La compassione dormiva come dorme un minatore la domenica, dopo una settimana di duro lavoro, per poter scendere giù di nuovo il lunedì.
Visitava un paziente e al posto suo vedeva Tereza. Si ripeteva dento di sé: Non pensare a lei! Non pensare a lei! Si diceva: proprio perché sono malato di compassione è un bene che lei sia partita e che non la riveda più. Devo liberarmi non da lei ma dalla mia compassione, da questa malattia che prima non conoscevo e di cui lei mi ha inculcato il bacillo.
Il sabato e la domenica aveva sentito la dolce leggerezza dell’essere avvicinarglisi dal profondo dell’avvenire. Il lunedì si sentì oppresso da una pesantezza quale fino ad allora non aveva mai conosciuto. Tutte le tonnellate di ferro dei carri armati russi non erano nulla a confronto di quel peso. Non c’era nulla di più pesante della compassione. Nemmeno il nostro proprio dolore è così pesante come un dolore che si prova con un altro, verso un altro, al posto di un altro, moltiplicato dall’immaginazione, prolungato in centinaia di echi.
Si ripeteva che non doveva arrendersi alla compassione, e la compassione lo ascoltava a testa bassa, come se si sentisse colpevole. La compassione sapeva di abusare dei propri diritti, ma si ostinava in silenzio, e così il quinto giorno dalla partenza di Tereza, Tomáš comunicò al direttore della clinica […] di essere costretto a ritornare in patria immediatamente.
Milan Kundera, cit., pp. 38-39 
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mercoledì, 17 agosto 2011

Mitgefühl-Compassione

irisKundera, mentre spiega gli intrecci della tormentata e felice relazione tra Tomáš e Tereza, riflette sui diversi approcci che le lingue hanno alla parola che in italiano, come in ogni lingua derivata dal latino, si struttura col prefisso “cum” unito alla radice “passio”, che significa originariamente “sofferenza”.
Il tedesco, ad esempio, come altre lingue, deriva il concetto di compassione dalla radice di “sentimento” (Gefühl), percui si dice Mitgefühl.
Alla luce di ciò che sa e che desidera raccontare, e soprattutto in base alla sua lingua, il ceco, che compone il termine compassione partendo da “sentimento” e non da “passione”, lo scrittore svolge le seguenti considerazioni.
Nelle lingue derivate dal latino la parola compassione significa: non possiamo guardare con indifferenza le sofferenze altrui; oppure: partecipiamo al dolore di chi soffre.
A questo punto inserisce una nota di critica alle lingue derivate dal latino, per le quali si partecipa, chissà perché, soprattutto al dolore di qualcuno, o, per lo meno, questa è la condizione alla quale l’uso del termine corrente ci fa pensare. Kunder dunque mette a fuoco, secondo la propria sensibilità, quale sia l’alone di ambiguità che talvolta può avvolgere l’idea di compassione.
Un’altra parola dal significato quasi identico, “pietà” suggerisce persino una sorta di indulgenza verso colui che soffre. Aver pietà di una donna significa che siamo superiori a quella donna, che ci chiniamo, ci abbassiamo al suo livello.
E’ per questo che la parola compassione generalmente ispira diffidenza: designa un sentimento ritenuto mediocre, di second’ordine, che non ha molto a che vedere con l’amore. Amare qualcuno per compassione significa non amarlo veramente.
Il sospetto che compassione nasconda un’emozione “cattiva o mediocre” non esiste nei nomi come Mitgefühl.
La forza nascosta nella sua etimologia bagna la parola di una luce diversa e le dà un senso più ampio: avere compassione (co-sentimento) significa vivere insieme a qualcuno la sua disgrazia, ma anche provare insieme a lui qualsiasi altro sentimento: gioia, angoscia, felicità, dolore. Questa compassione designa quindi la capacità massima di immaginazione affettiva, l’arte della telepatia delle emozioni. Nella gerarchia dei sentimenti è il sentimento supremo.
E qui Kundera torna al reticolo del romanzo. Tomáš è un giovane chirurgo, donnaiolo e teorizzatore della “regola del 3”: tra un’incontro e l’altro con un’amante lasciar passare almeno tre settimane, oppure, se gli incontri sono ravvicinati, mai superare il terzo. (Mi pare che questa teoria fosse anche nel film in cui Luca Argentero interpreta un friulano omosessuale che si candida a Sindaco contro Francesco Pannofino). Tereza è piccola, ancora più giovane, proviene dall’arretrata campagna, e con il suo desiderio di vita e la sua dedizione ricava uno spazio accanto a Tomáš, un universo costantemente insidiato da amanti vecchie e nuove. Lei sogna i tradimenti e li patisce come se fossero veri, ne trova conferma dentro i cassetti, e nelle lettere che il futuro marito riceve e conserva. In queste vicende si capisce che il Mitgefühl, che rimane in parte inspiegabile, di Tomáš verso Tereza, è il primo e più forte fondamento del suo sentimento d’amore.
Quando Tereza aveva sognato di infilarsi gli aghi sotto le unghie si era tradita, rivelando così a Tomáš di aver frugato di nascosto nei suoi cassetti. Se glielo avesse fatto un’altra donna, lui non le avrebbe mai più rivolto la parola. Tereza lo sapeva e perciò gli aveva detto: “Cacciami via!”. Ma lui non solo non l’aveva cacciata via, ma le aveva preso la mano e le aveva baciato la punta delle dita, perché in quell’istante sentiva lui stesso il dolore sotto le unghie di lei, come se i nervi delle dita di Tereza fossero collegati direttamente al suo cervello.
Chi non possiede il dono diabolico della compassione (co-sentimento), non può che condannare freddamente il comportamento di Tereza, perché la vita privata dell’altro è sacra e i cassetti con la sua corrispondenza intima non si aprono. Ma dal momento che la compassione era diventata il destino (o la maledizione) di Tomáš, gli sembrava di essere stato lui stesso a inginocchiarsi davanti al cassetto aperto della scrivania e a non poter distogliere gli occhi dalle frasi scritte da Sabina. Egli capiva Tereza e non solo era incapace di arrabbiarsi con lei, ma le voleva ancor più bene.
L’insostenibile leggerezza dell’essere, pp. 27-29

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