lunedì 9 gennaio 2012

La metropoli e il nostro deserto necessario

metro2La prima metà di appunti e divagazioni partendo dagli ultimi 3 capitoli di Ascetismo metropolitano.
  • La metropoli e il nostro deserto necessario
La città è la proiezione delle nostre fughe dal bisogno inconscio di essenzialità, che ormai sempre meno avvertiamo.
La città è un deserto sovraffollato, scrive Zygmunt Bauman.
Il vivere metropolitano attenta alla nostra realtà esponendoci di continuo a un paradosso. La vastità della città è esaltante. Mai come nella metropoli il corpo e la mente percepiscono l’entusiasmo e l’eccitazione della propria unicità. A questa onnipotenza sensibile si contrappone l’istinto all’autodifesa, al sospetto, il paradosso della propria oceanica onnipotenza lì dove i flussi di gente sono inarrestabili e le umanità accatastate.
La città muta spesso in un inferno, in un deserto, che attraversiamo, dice Demetrio, a mani vuote. E’ persino difficile che la metropoli, desertificata dal proprio sovraffollamento, offra dei miraggi.
La città stanca chiunque, anche chi goda dei suoi vantaggi e dei suoi privilegi. In città si ricomincia ogni giorno senza aver finito ciò che si doveva fare il giorno prima. La città cancella in un batter d’occhio le persone incontrate, usate e persino amate, con una fretta che il cervello e il cuore dell’asceta non possono tollerare. Sembra che le folle anonime nemmeno più avvertano la propria ansia di sopravvivenza.
La città mette alla prova sia il pensiero esitante, sia la vocazione ascetica credente. La città è l’impero della finzione. Subdolamente ci invoglia a cercare solo qualche certezza interiore, per riuscire a sopravviverle. Ci incita a tradire il desiderio di solitudine, facendoci sentire spesso isolati. E’ brutta anche quando ci incanta, e ci confonde le idee sulla bellezza, perché le sue bellezze sono appariscenti finzioni per indurci a sopportarla. Anche i giardini, i parchi, le sale da concerto e le partite di calcio sono finzioni: ma talvolta ci inteneriscono, perché assomigliano alla via mitica dell’infanzia.
L’asceta, che abbia scelto di non fuggire, deve inventare nuovi simboli, e imparare, da loro, ad esercitarsi all’inquietudine. Con i loro gesti, gli occhi, i pensieri, le scritture, gli asceti frugano gli inferni, i cunicoli, le degradazioni della città e proprio così, finalmente, realizzano la loro spiritualità del tutto immanente. Non cercano interstizi rassicuranti e consolatori, perché dedicarsi a rintracciare i simboli dell’esistenza stessa nel rumore, nel grigiore o nelle notti urbane, permette di percepire bene il moto ascensionale e discensionale della propria vita interiore.
Il piacere, e il dovere, è quello di non fare mai sostare la mente, di non tradire mai la vocazione indecifrabile alla ricerca, incompiuta, del senso ultimo dell’esistere, nonostante ogni avversità e alienazione.
Anche oggi c’è chi, grazie agli scambi fitti di e-mail o il chat, o dotato di webcam, cerca di soddisfare il proprio intramontabile narcisismo pubblico diradando le proprie presenze urbane: ma pur sentendosi un solitario, non può dirsi asceta. Non è la casa appartata in collina che fa il nuovo asceta, né la ricerca del silenzio o il rifiuto di esperienze forti. La nuova elevazione spirituale si realizza solo nell’impegno a esprimere solidarietà. Il non credente lo manifesterà col proprio senso del pudore, con la propria mitezza, senza citazioni sacre. Il proprio ascetismo si manifesta con un gesto concreto e solidale, che tenta di restituire ad ogni uomo o donna della folla la propria individualità: realizzarsi e diventare pienamente uomini, o donne, richiede un lavoro su di sé, che va al di là del ruolo sociale esteriore riservato a ciascuno, e che ciascuno è tenuto a svolgere per il bene della città. Tutti gli esseri umani hanno un valore intrinseco, indipendentemente dalla loro posizione sociale, e una capacità di realizzarsi grazie al libero arbitrio, la cui prerogativa è soddisfare l’io interiore. L’asceta, credente o meno, non sta inerte a guardare e non volge la testa altrove, non ammette di fuggire dalle responsabilità.
  • Simone Weil e Karl Jaspers mistici metropolitani
Simone Weil: l’attaccamento fabbrica illusioni, e chiunque vuole il reale deve essere distaccato.
Nel sentire profondo abita quel desiderio che non è immaginario.
Non bisogna mai cercare una consolazione al dolore. La felicità è qualcosa oltre la consolazione e il dolore.
L’estrema felicità può toglierci il potere di dire io. Se l’io può essere risvegliato solo dall’amore, soltanto per amore può essere negato, e il male di non riuscire a salvarlo può annientarci.
Gli esercizi del pensiero sono forme di apertura all’imponderabile, di esitazione, parsimonia della parola, riviviscenza del silenzio interiore.
Karl Jaspers: l’uomo apre gli occhi sul mondo solo quando acquista una coscienza, una consapevolezza, tragica. La scoperta fondamentale della consapevolezza tragica è la non unità di tutto ciò che è.
All’asceta metropolitano interessa la condivisione umana degli innumerevoli modi in cui la tragicità si manifesta. Nel vivere metropolitano l’infinita pluralità e moltiplicazione delle verità individuali, dei volti, delle figure e delle parole della tragicità fanno di questa scoperta un’evidenza.
Karl Jaspers processa il desiderio mistico di unione con il tutto: noi come indagatori di noi stessi ci muoviamo nell’abbracciante che noi siamo, in modo da farci oggetto del nostro stesso esserci, operiamo su di esso, trattiamo con esso, ma al tempo stesso questo ci fa capire che noi non ce ne impadroniremo mai. L’abbracciante mi mantiene libero dalla pretesa di poter tutto sapere.
La città è il territorio disperatamente più appropriato a restare dentro la realtà. Anche se ogni tanto ci si concede qualche divagazione, qualche viaggio fuori porta, questa è una verità da portare in giro con sé, da non buttare via. L’ascesi non ha niente in comune con un passatempo domenicale, è uno stile di vita civile. Qui abita la più alta dignità umana, e il diritto a respingere le spiegazioni rassicuranti di ogni natura.
Gli esercizi di verità rivelano tre inganni: che la pace personale sia una via di salvezza; che una calda e accogliente comunità possa addolcire le pene; che un desiderio possa mai essere abitato dall’innocenza.
Nel momento in cui il tragico è un dato riconosciuto come dato costitutivo dell’essere, è possibile accoglierlo e salvarci da ogni illusione di potercene liberare. Il fatto che sia costitutivo dell’essere ci convince moralmente che o la salvezza è di tutti o sarebbe scandaloso fosse soltanto di alcuni.
L’asceta incredulo non può dimenticare questa verità ontologica. I filosofi non sono dediti alle panacee. Mettere tra parentesi il dolore, che esiste perché possa esserci divenire –il quale è uscire dall’abisso e ritornarvi- accontentarci della bellezza che il mondo ci offre quanto ci può consolare?
Affrontare l’inquietudine, dominarla e viverla: l’asceta ha imparato a proprie spese a sostenere il dramma dell’incompiutezza umana, dell’impotenza della ragione e del sentimento, della conquista e della perdita. Sostenere il dramma non vuol dire serenità, né pacificazione, né indifferenza, né sorriso serafico sul proprio volto.
L’asceta non credente non pensa a salvare la sua anima. Contempla con sofferenza le colpe, le ingiustizie, i misfatti di cui gli uomini si rendono responsabili verso i fratelli. La salvezza è l’impegno per la giustizia e la salvaguardia dei diritti individuali, è la ricerca di condizioni di convivenza accettabili. La salvezza è non cercare mai scusanti per la propria assoluzione.
Il mistico metropolitano analizza le proprie insicurezze e le proprie transitorietà. Cerca di capire dove nasca l’ostilità verso ciò che è instabile, incerto e impermalente, e dove si generi l’illusione che la vita sia fonte di stabilità e certezze.

venerdì, 04 novembre 2011

L’ascetica del disincanto: Rilke (poesia)

Demetrio cita apertamente non la prosa ma la poesia elegiaca di Rilke, quella, se possibile, ancora più intima e soggettiva, perché una sua parte fondamentale è dedicata alla sensibilità religiosa. Siccome studiare Rilke è sempre un piacere partecipiamo anche noi, mettendo in campo quel poco che già sappiamo, ma soprattutto mettendoci a studiare di più.
Rispetto alla fase elegiaca del poeta, andiamo indietro di qualche anno e riprendiamo il concetto di spazio interiore del mondo.
Un solo spazio compenetra ogni essere:
spazio interiore del mondo. Uccelli taciti
ci attraversano. Oh, io voglio crescere,
guardo fuori ed in me ecco cresce l’albero.
Il misticismo di Rilke, fatto di impressioni molto concrete e materiali, vede in Dio il simbolo, quasi materiale e tangibile, dell’universale divenire.
Nelle proprie meditazioni religiose Rilke si rivolge direttamente a Dio, e le sue domande, le sue preghiere, spesso assumono la forma di litanie.
Secondo Rilke, asceta della poesia, e mistico delle cose, da cui la musica, il canto, nascono spontanei, le contraddizioni di Dio moltiplicano all’infinito la contraddittoria molteplicità delle cose.
Chi la vive dunque? sono forse le cose che,
simili ad una melodia non suonata,
giacciono nella sera come un’arpa?
sono i venti che soffiano dalle acque?
sono i rami che si fanno cenno,
sono i fiori che intrecciano profumi?
o i lunghi viali che invecchiano?
sono i caldi animali che camminano sulla terra?
sono gli uccelli che, estranei ad essa, s’innalzano a volo?

Chi la vive dunque? La vivi tu, Dio- la vita?
Riferendosi a Rilke, Demetrio spesso cerca di chiarire la nozione di disincanto. Il disincanto non si oppone alla speranza, è, anzi, un’elevazione della coscienza, un percorso indispensabile nella ricerca meravigliata di noi stessi. Il disincanto è il sospetto critico.
Per maggiore chiarezza e presa sul lettore Demetrio trascrive un’orazione del disincanto presa dal Libro delle ore di Rilke:
Cosa farai, Dio, se muoio?
Sono la tua brocca (e se m’infrango?).
Sono la tua acqua (e se marcisco?).

Sono la tua veste e il tuo lavoro:
perderesti insieme a me il tuo stesso senso.

Dopo di me, tu non hai casa
in cui t’accolgano parole d’intimo calore.
Dai tuoi piedi stanchi, i sandali
scivolerebbero via – loro: sono io.

Il tuo mantello grande si slaccia via da te.
Il tuo sguardo, che io accolgo sulle guance calde
come su un cuscino, verrà,
mi cercherà, per lungo tempo –
e giacerà tra pietre estranee
nel sole che discende oltre la terra.

Cosa farai, Dio? Sono in angoscia.
Nella contemplazione delle proprie sconfinate profondità interiori, il poeta apre gli occhi sul mondo. Veglia quando il sonno appare inutile e scopre una realtà cosmica che è un orizzonte dimenticato da sguardi troppo consueti. L’ascetismo è, per credenti e increduli, una filosofia di vita, una vocazione esistenziale. È l’etica civile di chi, vagabondando tra le folle, non si rassegni alla perdita di senso, e si ostini, qui e non altrove, a cercare la propria solitaria dimensione spirituale.
[…] esiste forse cosa
che non sia tutta sola con se stessa e indicibile?
Invano diamo nomi, solo è dato accettare
e accorgerci che forse qua un lampo, là uno sguardo
ci abbia sfiorato, come
se proprio in questo consistesse vivere
la nostra vita. Chi si oppone perde
la sua parte di mondo. E chi troppo comprende
manca l’incontro con l’Eterno. A volte
in notti grandi come questa siamo
quasi fuori pericolo, in leggere parti uguali
spartiti fra le stelle. Immensa moltitudine.
L’asceta contemporaneo oppone alla distrazione continua un’assiduità riflessiva, interiore e condivisibile, inquieta e intransigente:
Il cielo canta nella sua certezza,
cantano oltre il tempo stelle radiose,
noi siamo in silenzio in compagnia di dolorose cose.
[…] E abbiamo speranza e meraviglia
e scrupolosi delle cose ci curiamo-
solo questo un tempo ci rapì […].

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giovedì, 03 novembre 2011

L’ascetica del disincanto: Rilke (prosa)

rosso fiorentinoDuccio Demetrio scrive che il disincanto è accogliere la lontananza, la differenza, senza più nostalgia per l’inverosimile fondersi delle cose, ed è non distrarsi mai, se non per guardare ammirati qualcosa che ci era sempre sfuggito.
Il massimo asceta metropolitano per me è sicuramente Malte Laurids Brigge a Parigi, protagonista dell’unico romanzo di Rilke, da sempre amato per come esprime la ricerca dello spazio interiore del mondo. Infatti nessun concetto è più rilkiano di Weltinnenraum, che è, allo stesso tempo, spazio terreno e spazio interiore dell’anima:
Io imparo a vedere. Non so perché tutto penetra in me più profondo e non rimane là dove, prima, sempre aveva fine e svaniva. Ho un luogo interno che non conoscevo. Ora tutto va a finire là. Non so che cosa vi accada.
Siamo in tanti ad affidarci a Malte, ed infatti questo testo complesso, questo accumulo di vita vissuta, suddiviso tra visioni, racconti e memorie che lasciano il cuore continuamente senza pace, è frequentemente trascritto nei blog con passione direi monomaniacale, che io ben comprendo. Nessun altra prosa che si conosca descrive, da dentro, perché nemmeno una cosa, descrizione o ricordo, angoscia o quadro, può stabilizzarsi. Nessun altro poeta percepisce, e condivide, il canto sommesso che attraversa le cose oltre lo spazio e il tempo a loro destinati.
Questo primo brano somiglia a qualche passaggio delle Lettere a un giovane poeta.
[C]oi versi si fa poco quando li scrive troppo presto. Bisognerebbe saper attendere, raccogliere, per una vita intera e possibilmente lunga, senso e dolcezza, e poi, proprio alla fine, si potrebbero forse scrivere dieci righe valide. Perché i versi non sono, come crede la gente, sentimenti (che si acquistano precocemente), sono esperienze. Per scrivere un verso bisogna vedere molte città, uomini e cose, bisogna conoscere gli animali, bisogna capire il volo degli uccelli e comprendere il gesto con cui i piccoli fiori si aprono al mattino. Bisogna saper ripensare a itinerari in regioni sconosciute, a incontri inaspettati e congedi previsti da tempo, a giorni dell’infanzia ancora indecifrati, ai genitori che eravamo costretti a ferire quando portavano una gioia che non comprendevamo (era una gioia per qualcun altro), a malattie infantili che cominciavano in modo così strano con tante profonde e grevi trasformazioni, a giorni in stanze silenziose e raccolte e a mattine sul mare, al mare soprattutto, a mari, a notti di viaggio che passavano con un alto fruscio e volavano assieme alle stelle – e ancora non è sufficiente poter pensare a tutto questo. Bisogna avere ricordi di molte notti d’amore, nessuna uguale all’altra, di grida di partorienti e di lievi, bianche puerpere addormentate che si rimarginano. Ma bisogna anche essere stati accanto ad agonizzanti, bisogna esser rimasti seduti vicino ai morti nella stanza con la finestra aperta e i rumori intermittenti. E non basta ancora avere dei ricordi. Bisogna saperli dimenticare, quando sono troppi, e avere la grande pazienza di attendere che ritornino. Perché i ricordi in sé ancora non sono. Solo quando diventano sangue in noi, sguardo e gesto, anonimi e non più distinguibili da noi stessi, soltanto allora può accadere che in un momento eccezionale si levi dal loro centro e sgorghi la prima parola di un verso.
Duccio Demetrio afferma che il neoasceta è, nella sua visione dell’esistenza, molto simile ai poeti che non sanno, vogliono né possono aspirare alla parola assoluta, definitiva e sublime che ponga fine all’incertezza. A me pare proprio che descriva Malte, sarà forse anche perché Demetrio definisce la figura simbolo del suo saggio l’asceta che nessuno sa.
Questa associazione ritorna nettamente quando, intorno a pagina 65, Demetrio parla di ascetismo dello sguardo, di quello sguardo che si reclina verso l’infinitamente piccolo per salvarlo dall’oblio. L’ascetismo dello sguardo è proprio di colui che guarda oltre il cielo, senza il desiderio di conoscerne spiegazioni ultime.
E’ un ascetismo che accetta i limiti del pensiero e che per questo acconsente di abbandonarsi al sensibile: a esplorarne ogni anfratto, al di là dei criteri di bello o di brutto, di male o di bene, di giusto o iniquo. L’ascetismo dello sguardo è pronto ad accogliere ogni rivelazione del concreto e del reale, penetrandoli fin dove sia possibile e tollerabile.
Questo ascetismo parigino è per Malte il viatico necessario a divenire scrittore.
È ridicolo. Sono qui seduto nella mia stanzetta, io, Brigge, che ho compiuto ventotto anni e del quale nessuno sa nulla. Siedo qui e sono un niente. Eppure questo niente comincia a pensare, in cima a cinque rampe di scale, in un grigio pomeriggio parigino, questi pensieri: È possibile aver avuto secoli di tempo per guardare, per riflettere e per annotare, e aver lasciato passare questi secoli come l’intervallo a scuola, quando si mangia pane imburrato e una mela? Sì, è possibile. È possibile che nonostante invenzioni e progressi, cultura, religione e saggezza universale si sia rimasti alla superficie della vita? È possibile aver rivestito persino questa superficie, che avrebbe pur sempre rappresentato qualcosa, di un tessuto incredibilmente uggioso, così da farla assomigliare ai mobili di una sala durante le vacanze d’estate? Sì, è possibile. È possibile aver frainteso l’intera storia universale? È possibile che il passato sia falso perché si è sempre parlato delle masse come se si dicesse delle moltitudini senza parlare dell’Uno attorno al quale si stringevano perché era sconosciuto e moriva? Sì, è possibile. È possibile credere di dover recuperare ciò che avvenne prima di essere messi al mondo? È possibile dover ricordare a ciascuno che è frutto di un lontano passato, e dunque è tenuto a conoscerlo e a non lasciarsi influenzare dagli altri, che hanno un diverso sapere? Sì, è possibile. È possibile che tutti questi uomini conoscano fin nei dettagli un passato che non è mai esistito? È possibile che ogni realtà non rappresenti nulla per loro? Che la vita scorra senza connettersi a qualcosa, come un orologio in una stanza deserta? Sì, è possibile. È possibile non sapere niente delle fanciulle, che pure vivono? È possibile dire “le donne”, “i bambini”, “i ragazzi” e non intuire (non intuire a dispetto di tutte le conoscenze) che questi vocaboli da tempo non hanno più un plurale, ma solo innumerevoli singolari? Sì, è possibile. È possibile ci sia gente che dice “Dio” e pensa a qualcosa di collettivo? – Basta prendere due scolari: uno si compera un coltello e il giorno stesso il suo compagno ne compera uno identico. Dopo una settimana si mostrano a vicenda i due coltelli, che ormai hanno solo una lontana somiglianza, tanto diversi sono diventati in mani diverse. (Sì, commenta la madre di uno dei ragazzi: anche se voi consumate sempre tutto allo stesso modo.) E dunque: è possibile credere di poter avere un Dio senza logorarlo? Sì, è possibile. Ma se tutto questo è possibile, se ha anche solo un’ombra di possibilità, allora, per tutto al mondo, bisogna che qualcosa accada. Il primo che capita, il primo che ha avuto questi pensieri inquietanti, deve cominciare a recuperare qualcosa di quanto si è tralasciato; anche se è uno qualsiasi e non certo il più adatto: visto che nessun altro si presta. Questo giovane straniero insignificante, Brigge, dovrà mettersi seduto lassù al quinto piano e scriverà, giorno e notte: sì dovrà scrivere, questo sarà il suo fine.»

mercoledì, 02 novembre 2011

Il cimitero di Montparnasse

rodEra tutto fatto di casette, di cappelle in miniatura costruite sopra le tombe. Sabina non capiva perché i morti volessero sopra di sé delle imitazioni di palazzi. Quel cimitero era la presunzione fatta pietra. Invece di diventare più ragionevoli dopo la morte, gli abitanti del cimitero erano ancora più sciocchi che non in vita. Mettevano in mostra sulle lapidi la propria importanza. Qui erano sepolti non padri, fratelli, figli o nonne, ma notabili e funzionari pubblici, portatori di titoli, gradi e onorificenze; persino un impiegato delle poste ostentava la sua posizione, il suo significato sociale- la sua dignità.
[…] Se una tomba è coperta da una pietra, il morto non potrà più uscire.
Ma se il morto non uscirà comunque! Non è la stessa cosa se è coperto dalla terra o da una pietra? No, non è la stessa cosa: se chiudiamo una tomba con una pietra, vuol dire che non vogliamo che il morto ritorni. La pietra pesante dice al morto: “Rimani lì dove sei!”.
Sabina ripensa alla tomba del padre. Sulla sua bara c’è la terra, dalla terra crescono i fiori e un acero allunga le sue radici verso la bara, e si può pensare che lungo quelle radici e quei fiori il morto esca dalla bara. Se il padre fosse stato coperto da una pietra, lei non sarebbe riuscita a parlargli dopo la sua morte, non avrebbe mai potuto sentire tra le foglie degli alberi la sua voce che la perdonava.
L’insostenibile leggerezza… pp. 129-130

martedì, 01 novembre 2011

Ascetismo metropolitano capitoli I-IV

metro3 If I should fall from grace with god
Where no doctor can relieve me
If I'm buried 'neath the sod
But the angels won't receive me

Let me go, boys
Let me go, boys
Let me go down in the mud
Where the rivers all run dry

Chissà se Duccio Demetrio ascolta i Pogues. Io approfitto di Lord John, che me li vuole far conoscere, ed intanto condivido i miei appunti sui primi 4 capitoli di Ascetismo metropolitano, già citato, per arrivare poi a parlare di Rilke.

Secondo Enzo Bianchi, ascoltato alla radio pochi giorni fa, la fede non è credere in qualcosa, ma aderire ad un legame di forza in cui c'è saggezza. Utilizziamo dunque l'elaborazione di Demetrio per comprendere quale particolare legame di forza caratterizzi la spiritualità di un asceta non credente, e quale tipo di saggezza risieda in questo legame.

Certamente anche Demetrio conosce il priore di Bose, e lo cita (p.85): "Credo ci sia posto per una religiosità degli agnostici e dei non credenti, di coloro che sono in cerca della verità perchè non soddisfatti [...] di verità definite una volta per tutte. E' una spiritualità che si nutre dell'esperienza dell'interiorità, della ricerca del senso e del senso dei sensi, del confronto con la realtà della morte [...] come esperienza del limite. [...] E' una spiritualità che si alimenta di alterità".


Pieno di grande spiritualità ma non credente, Demetrio spiega che l’etimo della parola ascesi deriva dal verbo greco askéo (lavorare, preparare, esercitare), perciò dovremmo intenderla come un’attività ripetuta volta a ottenere un risultato pratico. [Chiarisce meglio poi a pagina 109: askéo letteralmente è lavorare sui metalli grezzi, sbozzare, limare, dare forma a quanto ancora non ne possiede una].
La cogitante e pragmatica insegnante d’inglese s’innamora sempre di più del verbo ask, domandare…

Alle origini dunque l’ascesi era un concetto legato a un lavoro manuale che richiedesse dedizione e concentrazione. Quando poi al pensiero umano sorse il bisogno di avvalersi di astrazioni per andare oltre il concreto, le sensazioni, e vedere oltre l’immediatezza, la mente scoprì i propri compiti ascetici. L’oggetto principale di ogni ascetismo non può non essere il proprio intelletto, da allenare, e educare, e esercitare in funzione di un’elevazione. Non può che essere la propria vita interiore, sia che la si reputi idonea a incontrasi col divino, sia che la si ritenga un luogo segreto e personale per dedicarsi all’enigma dell’essere.
L’ascesi, religiosa o laica, vuole accedere alle dimensioni del mistero. Chi l’intraprende ha la possibilità di stabilire un’intimità coi misteri. Ma chi si fa asceta senza culti, dedicandosi al problema di Dio senza crederci, sa già in partenza che non troverà mai nessuno ad attenderlo o a venirgli incontro in questa ricerca. La sua gratificazione sarà l’approssimarsi a una consapevolezza sempre più complessa di ciò che l’esistenza possa significare.
L’ascesi produce anche il ritorno a una più intensa percezione della propria peculiarità biografica. In un contesto laico è ascetico ogni moto del pensiero che accresca la cognizione di vivere, che la renda più intensa.
Serve una costante autodisciplina interiore fatta di alcune regole quali la solitudine, il silenzio, il raccoglimento. La contemplazione di ciò che è e non può non essere avviene anche nell’assolvimento delle occupazioni quotidiane, distanti da ogni fretta e impazienza, nell’esercizio di attività umili. Ci si isola volontariamente, oppure si resta con pochi altri, mossi da identica ricerca.
L’ascesi richiede cambiamenti, e spesso ne genera altri, imprevedibili e irreversibili. E’ un tirocinio intellettuale e fisico volto a perseguire una trasformazione interiore. Si basa su modalità di carattere migliorativo che si possono definire auto educative: l’esperienza ascetica si affida alla costanza, alla tenacia e alla perseveranza per superare i gradini e i livelli precedenti. Si persegue con ostinazione il progressivo sfrondamento del superfluo: nel sentire, nel pensare, nel fare.
La novità più interessante della storia presente è che la cultura degli individui, di cui ad esempio parla anche Bauman, produce nuovi ascetismi. Essi sono caratterizzati dalla religiosità, ma non dalla religione.
Per i neoasceti Dio è lo sguardo esterno su cui si forma la coscienza, è lo sguardo che ci preserva dai cortocircuiti fatalisti. La relazione problematica con il divino o con le domande esistenziali, che emergono quasi esclusivamente nelle nuove condizioni metropolitane di vita e di sopravvivenza, resta una questione personale.

I neoasceti sono persone inquiete e vaganti, che scelgono l’intollerabile città per sentire quello che il paesaggio più mistico e bello non riuscirebbe mai a dir loro.
L’emblema dell’asceta metropolitano, secondo me, è Malte Laurids Brigge, per il quale mi riservo il prossimo post.
venerdì, 28 ottobre 2011

Ascetismo metropolitano, Intro

metro 01Chi è ateo è più spesso definito da Demetrio “incredulo dubitante”. L’asceta non credente è colui che intenda l’ascesi come un percorso volto ad approfondire la conoscenza del proprio essere al mondo, senza guide spirituali terrene, e anche senza accompagnatori celesti. Ogni ascesi ha come meta un avanzamento evolutivo, una progressiva educazione di sé, il controllo dei propri istinti. E’ dedizione a uno stato di sapienza più elevato del precedente. Il desiderio di cogliere il significato pieno dell’esistenza, non solo privato e personale, è un’impresa che resta, per l’asceta che non aderisce a una data dottrina, coraggiosamente e umilmente incompiuta. Il non credente pieno di spiritualità è lontano dai dogmi, e non ha nemmeno le sicurezze di coloro che negano il principio della fede. E’ contrario all’assioma del non senso radicale, ma si ostina a non credere. Che l’esistenza sia il frutto di un disegno intelligente e provvidenziale, o sia al contrario frutto del caso, l’asceta non può che immergersi, inabissarsi, in quanto può offrirgli la vita.
L’asceta non credente pensa che ogni atto della coscienza non possa che rivolgersi all’evidenza sensibile. E’ prudente e cauto nel giudicare. Prova pudore e timidezza verso ogni presunzione di giungere a una conclusione certa. Coltiva il proprio io senza alcuna idolatria, e non può fare a meno di sporgersi oltre i crinali di una ragione che, da sola, non lo sazia e non lo consola.
La sua infaticabile introspezione personale genera rispetto e tolleranza, e un’inesauribile curiosità e ammirazione per la storicità biografica di ogni cosa. La sua privata tensione intellettuale genera domande inevitabili, e in questo consiste il loro carattere sacro. Il metodo ascetico è fatto dunque di comportamenti e autodisciplina che di quelle domande facciano una personale ragione di senso.
L’ascetismo indocile non ambisce a ritirarsi in una sfera privata, individualistica, né nell’autocompiaciuta ed estetizzante “ricerca di sè”, o nel culto della tranquillità, perché questa sfera sarebbe indifferente alle sorti del mondo. Sarebbe solo la ricerca di una tana protettiva contro le minacce e le contaminazioni della vita. Sarebbe un modo di selezionare artificialmente e a priori quanto nell’esistenza può nuocere alla propria beatitudine e tranquillità.
Il giardino della bellezza, la quiete della solitudine, o la gioia della compagnia, sono i doni che la vita sa offrire. Ma la parte di sé che l’asceta non credente reputa divina è proprio quella insoddisfatta e inquieta, che costituisce la sua grandezza e la sua debolezza. La vita stessa, pienamente cosciente, è già contemplazione, è già prodigio spirituale. E’ timore riverente di fronte al carattere sacro della vita.
Dove abita l’inquietudine? Soprattutto nella metropoli, dove lacerate sono le storie, irrequiete le relazioni personali. Non vi è dunque luogo più adatto della metropoli per continuare ad indagare i segreti ultimi e primi dell’esistenza. I labirinti urbani sono i luoghi di un nuovo ascetismo: tra lo scontento, la rinuncia, e anche la crudeltà e il disprezzo, di alcune marginalità subite; negli spazi anonimi della rassegnazione e della caoticità; nei seduttivi plagi di ciò che è effimero.
L’ascesi metropolitana è una via di pietà per se stessi e gli altri. E’ un conforto per la ragione indomita. Si oppone allo sperpero delle nostre vite. Alla dissipazione del fare e del pensare. E contrappone alla distrazione continua la propria assiduità riflessiva.
Cfr. Duccio Demetrio, Ascetismo metropolitano, cit., pp. 7-23.

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