lunedì 9 gennaio 2012

Il compito dell’arte è offrire una forma pensabile al legame con se stessi.
In questo percorso il Simbolismo mette a disposizione rimandi e visioni che spesso s’incontrano anche in elaborazioni diverse.
In particolare alcune figure mitiche e alcuni racconti biblici sembrano accompagnarci da sempre nell’itinerario che riconduce le esperienze a ciò che vivere significa: Orfeo, Narciso, Calypso e anche le parabole del Nuovo Testamento.
Nel testo di Duccio Demetrio “Autoanalisi per non pazienti- Inquietudine e scrittura di sè” tutto il primo capitolo analizza il fatto che il sentimento di vivere non si può rinchiudere in uno schema preordinato. La “vita che viene” è imprevedibile e ci spinge, insieme, alla coscienza e all’autocoscienza.
A tale proposito lo studioso commenta, tra le altre, la vicenda delle vergini savie e delle vergini stolte del Vangelo di Matteo, rappresentate, nel 1890, in un quadro di Giulio Aristide Sartorio, di cui non sapevo, e che ho osservato alla mostra di Padova sul Simbolismo in Italia.
Nella parabola ci sono dieci vergini che escono la sera ad attendere lo sposo. Cinque di loro portano con sé l’olio per le lampade, mentre le altre, spinte dall’euforia dell’attesa, non ci pensano. Lo sposo si attarda e le ragazze si addormentano. Nel cuore della notte l’annuncio dell’arrivo dello sposo le sveglia, ma solo la metà delle giovani ha l’olio per riaccendere la lampada e corrergli incontro. Le altre dovranno andare a procurarsi l’olio e non potranno entrare alla festa.
Secondo i commenti questa parabola serve a rappresentare vari elementi: l’imprevedibilità della vita, il senso dell’attesa, il rapporto tra coscienza e dimenticanza, tra emozione e sentimento (nell’intelligente accezione dialettale di consapevolezza). Serve a dare un senso dell’anima e della morte.
sartorio
In senso psicanalitico questo racconto spiega anche che esiste una parte di noi che veglia e una parte che è frequentemente assopita. “Conoscere l’umano non significa astrarlo dal mondo, ma situarvelo”: la consapevolezza non è un’ipotesi, o un’utopia, ma la capacità di collocare le nostre esperienze e le nostre condotte, intese sia sotto il profilo della vita mentale che dell’agire materiale e simbolico, in relazione al contesto biologico e sociale in cui si inscrivono.
La coscienza di qualcosa si realizza sia davanti all’imprevisto, sia davanti al consueto- ogni volta che usciamo dallo stato abituale e si aprono ora domande ora risposte che riguardano le condizioni che la vita ci impone.
La coscienza di sé è ancor più umana poiché avverte i propri limiti. Questa coscienza, così coscienziosa, talvolta così ordinata, ambiziosa e supponente, perde spesso il filo, nello stesso modo in cui le vergini stolte hanno scordato di prendere l’olio. Non dimenticarsi mai di vivere è avvertire quel qualcosa che ci parla nelle passioni, nei sogni, nei dolori, e non molla la presa, costringendoci a riconoscere il suo valore: quello di approfondire noi stessi al di là della solita nozione che abbiamo di noi stessi, fino a dare al nostro spirito un senso dell’anima. E della morte.
Quando attraversiamo esperienze perturbanti, imprevedibili, inspiegabili , quando irrompono nella vita l’amore passionale, la morte di qualcuno o l’annuncio della propria, la desolazione della noia e l’assenza di Dio, non basta prendere coscienza che si è innamorati e senza vie d’uscita, che si sta per morire o la si osserva, giorno dopo giorno, nell’appannarsi degli occhi altrui. Perché appena dopo succede che la coscienza si assopisce, si confonde.
Il dolore, il senso di vuoto, la mancanza di ogni scopo sono e basta. Occupano ogni anfratto dell’anima e ogni distrazione dura poco. La coscienza deve farsi da parte, accettare l’evento, senza altro conforto che non sia l’arrendersi a quanto accaduto, o nel cercare altrove consolazione incosciente.
Non si tratta di attendere che i sentimenti passino, tutt’altro, semmai di accettare che queste esperienze ci abitino nell’unica soluzione e nella scelta autonoma che ci è data. A nostre spese impariamo a sondarle e spiarle, a studiarne ogni movimento e novità impercettibile.
La coscienza vigile può aiutarci a risalire, ad amare altrimenti, a trasformare la perdita in un inizio, a trovare un modo di vita che non faccia a meno del ricordo o che sbiadisca il presente. Le vergini savie del Vangelo di Matteo vegliano inquiete, fino all’arrivo di qualche svelamento. Anzi, non aspettano soltanto, e tantomeno si assopiscono: gli vanno incontro con candele accese.
La coscienza deve imparare a guardare , e anche a non lasciarsi andare alle sole emozioni. Perché essa è in grado di assumere altre forme, soprattutto quando si sia toccato il fondo di ciò che ha una consistenza corporea: l’amore e il dolore, appunto.
Cfr. Giulio Aristide Sartorio, Le vergini savie e le vergini stolte, 1890-1891, Roma, Galleria d’arte moderna
D. Demetrio, Autoanalisi per non pazienti, pp. 65-73.

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