Sabati pomeriggio
Quanti  ragazzi di quel liceo preferirebbero passare un sabato pomeriggio con  una nonna capace di sorprendenti merende invece di consumare, zitti e in  piedi fra estranei, dolciastri surgelati riportati in vita nel  microonde al bar del megastore? Perché siamo infelici, cit., p. 71
Come curare l’infelicità?
 Aiutare a ricostruire, e a rivivere, emozioni  perdute, emozioni complesse e inafferrabili come sono quelle della  felicità e dell’infelicità, è una meta, ed è un compito, che non sono  nemmeno proponibili, se non nel contesto di un’attitudine […] che  consenta ad alcuni di noi […] di delineare una comunità di destino: tale  da farci sentire, e da farci provare, il dolore e la speranza, la  felicità e la infelicità degli altri come fossero nostre emozioni: nostri stati  d’animo. Quando questo avvenga, allora consentiremmo a chi sta male, a  chi ricerca le terre misteriose della felicità e della gioia, di dare  parole alle emozioni che si rivivano; e in questi due modi di essere, e  di confrontarsi con le emozioni perdute, o ricercate, o intraviste, si  nasconde (forse) il segreto di ogni […] relazione di aiuto.
In ogni caso, ha un  senso, e non ne ha alcuno, immaginare qualcosa che possa aiutare una  persona a ritrovare in sé, nel suo orizzonte di valori, risorse  interiori, magari ignorate e nascoste, che consentano di avvicinarsi  alla felicità come appagamento esistenziale? Ci sono, in ciascuno di  noi, umane possibilità che possano essere fatte riemergere dalla nostra  interiorità e che corrispondano a esigenze, e a bisogni, ancora  realizzabili al di là della nostra percezione delle cose?
[Ogni relazione di aiuto deve]  indirizzare a riscoprire le strutture costitutive della personalità e  la loro significazione in ordine alla storia della vita: alle sue  realizzazioni e ai suoi fallimenti. Ciò implica l’analisi, e la  descrizione, delle felicità vissute, ricercate e poi perdute: delle  perdute ragioni che sono state a fondamento delle antiche esperienze di  felicità. La riconsiderazione dialettica delle tematiche di felicità,  che in passato si sono costituite come ragioni di felicità, e delle  cause almeno apparenti che ne hanno determinato la scomparsa è uno dei  sentieri aperti alla chiarificazione […] di ogni singola umana  situazione.
Eugenio Borgna, Le figure della felicità, in: Perché siamo infelici, cit. 
           written by: Malfido time 09:46 | link | commenti 
sections: 08-professioni, 11- sfide, 14- letteratura arte opinioni
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(In)felicità e genetica
Sul tema dell’infelicità è appena uscita presso Einaudi la raccolta di 5 contributi di psichiatri e psicologi e di un genetista. Intelligentemente, e  provocatoriamente, il primo testo offerto al lettore è proprio quello  del professor Edoardo Boncinelli, famoso docente di Biologia e Genetica  presso vari istituti scientifici e università.
L’uomo è il risultato di numerosissime interazioni tra la genetica e l’ambiente:
Nasciamo con un  cervello ancora piuttosto piccolo, rispetto a quello che sarà poi, e che  ha bisogno di anni per raggiungere il suo pieno sviluppo. Come  conseguenza di questa nostra particolarità, il nostro cervello finisce  di svilupparsi mentre si trova già in contatto con il mondo esterno  tramite gli occhi, le orecchie, l’epidermide e tutti i terminali  sensoriali. 
In questo contesto,  rispetto al tema dell’infelicità, lo scienziato ha idee molto chiare:  tutti siamo infelici, chi più chi meno; qualcuno lo è ogni tanto,  qualcun altro spesso; alcuni se ne rendono conto e altri no.
L’uomo può soffrire di due tipi di infelicità, sintetizza Boncinelli.
La prima ha un chiaro  antefatto evolutivo, che ci rende simili agli animali: è legata a un  dolore fisico, o psichico, alla impossibilità di raggiungere un  obbiettivo essenziale: mangiare, bere, dormire. Una persona è infelice  perché misura lo scarto che c’è tra i suoi desideri e ciò che è  riuscito, e riesce, a raggiungere nella vita. Siamo infelici perché non  abbiamo raggiunto il nostro scopo: abbiamo problemi in famiglia, sul  lavoro, nei rapporti.
Questo tipo di infelicità  ha però un ruolo fisiologico ed evolutivo: se voglio una cosa e non la  posso avere, entro in uno stato d’animo di frustrazione e di delusione  che rinforza il mio sforzo per cambiare. La mia infelicità rafforza, e  non poco, la mia motivazione. L’infelicità è una spinta.
Questa spinta avviene  così, dal punto di vista biologico: l’abbassamento di umore, la  tristezza, la depressione, scatenano nel cervello una controspinta, cioè  la produzione di sostanze compensatrici, che il professore definisce  proteine consolatorie, delle quali può esserci addirittura  un’iperproduzione. Quando viene meno il motivo d’infelicità o di  difficoltà mentale, di paura, di stress, la circolazione di queste  proteine dà addirittura euforia. Per questo, chi non l’ha provato, ad  esempio, superato un esame difficile all’università, o scampato un  pericolo, ci si sente più determinati, più forti, più sereni: sono le  sostanze compensatrici della tensione e della preoccupazione che restano  in circolo. (Memorabile è questa sensazione il giorno della laurea…)
Quando si tratta di  infelicità più profonde, legate ad esempio al lutto per qualcuno, o a un  dispiacere o delusione persistenti, questo trucco biologico non riesce,  e la sofferenza dura a lungo.
La biochimica ci dice  che, in linea evolutiva, non è cambiato nulla. Sono cambiati solo i modi  di esternalizzare il dolore, e di partecipare al dolore degli altri. Le  potenzialità del corpo hanno sviluppato nel frattempo nuovi modi di  manifestare il disagio, nuove somatizzazioni, e la medicalizzazione è  venuta in soccorso dell’uomo, perchè se anche l’infelicità ci dà una  spinta a crescere, il dolore fa male.
L’altro tipo di  infelicità è senza motivo, e ci distingue radicalmente dagli animali.  Gli animali, chi più chi meno, vivono alla giornata, e la loro memoria  non è né vasta né persistente quanto quella di un essere umano. L’uomo  possiede una memoria e una razionalità tali da essere in grado di  paragonare e confrontare cose diversissime e lontanissime tra loro.  L’uomo misura spesso l’inadeguatezza tra i propri obiettivi e i propri  raggiungimenti, ci pensa e ci ritorna continuamente su. Spesso la  percezione che il passato fosse meglio del presente si risolve in una  spinta ad agire per modificare l’oggi. Ma, anche senza ragioni  contingenti, il più delle volte si spalma un senso d’incompiutezza e  d’inadeguatezza su tutta la propria vita, come una specie di  inalienabile sottofondo. 
L’uomo, per sua natura,  si pone sempre nuovi obiettivi, e sempre più alti. Alla base di tutta la  civiltà e di tutta l’evoluzione culturale, c’è la nostra natura  progettuale, prospettica. Per il solo fatto di avere progetti, guardare  lontano, immaginare insistentemente il nostro futuro, noi ci condanniamo  ad essere sempre scontenti. Probabilmente, se fossimo sempre contenti,  smetteremmo di fare progetti, e diventeremmo più cupi, accidiosi.
La grande spinta ad  andare avanti è allo stesso tempo un buco incolmabile, un aspetto di  quello che filosofi e poeti hanno sempre chiamato la nostra finitezza  (termine senza senso, in realtà, perché di infinito non c’è nulla). 
E proprio all’interno di  questo sistema sono i problemi, le smagliature, le lacerazioni del  nostro Io che ci permettono di osservarne il funzionamento. In medicina  la patologia ci serve a chiarire com’è la fisiologia, e la dimenticanza  illumina i percorsi della memoria.
Per ora la biologia non è  in grado di spiegare perché questa infelicità “senza motivo” non sia  uguale per tutti, forse esistono differenze individuali nei cicli  biochimici tra euforia e depressione.
Non esiste il gene  dell’infelicità. Tutto ciò che ad essa si riferisce è legato ad un  complesso di geni nell’ordine di una decina di migliaia: non conviene  alla natura far fare a un gene, o anche a dieci geni, qualcosa di  fondamentale per la vita, perché coloro che avessero quel gene sbagliato  sarebbero da subito fuori gioco.
E’ estremamente  improbabile che l’uomo cambi nel profondo di ciò che è: il genetista  dice che non è possibile. Però, fortunatamente, l’uomo non sa stare  chiuso dentro una stanza, a non fare niente. Ha dentro l’animale che  spinge, direbbe Battiato. E ha la cultura, la religione, la politica, il  sociale per iniziare a cambiare, almeno collettivamente. 
Cfr: Edoardo Boncinelli, L’infelicità come destino (e come spinta), in: AA.VV., Perché siamo infelici, Einaudi, 2010
Si può insegnare la felicità?
La  domanda non è peregrina se, prima all’Università di Harvard e più di  recente in quella di Wellington, sono stati introdotti degli  insegnamenti che hanno per oggetto la felicità e le modalità per  conseguirla. La domanda che sorge spontanea è quella che si chiede se  l’università, nella produzione e nella trasmissione del sapere, non  abbia oltrepassato il suo limite, invadendo sin nelle sue pieghe più  intime anche il mondo della vita, oppure se il tasso di solitudine,  nonsenso, depressione, disperazione è così diffuso tra i giovani da  mobilitare un intero corpo docente per insegnare loro, se non proprio a  essere felici, a creare le condizioni per l’accadimento della felicità.Se  questa è la natura della felicità escludiamo che la si possa  trasmettere per via di insegnamento, ma affermiamo anche che si possono  insegnare le condizioni per il suo accadimento. Di questo si occupa la pratica filosofica,  molto diffusa nei paesi anglosassoni, dove si sta recuperando il  concetto originario di filosofia, nella modalità in cui i Greci l’hanno  inaugurata innanzi tutto come cura dell’anima e governo di sé.
Cfr. Umberto Galimberti, I miti del nostro tempo
           written by: Malfido time 10:13 | link | commenti (2)
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Legalità
La  scuola è l'arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da  un lato formare il loro senso della legalità, dall'altro la volontà di  leggi migliori, cioè il senso politico.Don Lorenzo Milani
Frase scelta dall'I.T.I.S. Volta di Lodi per la Notte Bianca del 28 maggio 2010
  Il vero e centrale nodo dell’educazione non sta tanto nell’insegnare la  disubbidienza civile, quanto soprattutto nel saper realmente promuovere  e sostenere l’obbedienza alla propria coscienza. Si tratta cioè di  educare al coraggio e alla libertà del resistere di fronte a quelle  forme di legalità che si rendono opache nei confronti della giustizia.  Non dovremmo mai dimenticarlo: la legalità non è “fine”, ma “strumento”  per raggiungere condizioni di vita più giuste per tutti e per ciascuno.  Quando – per mille ragioni – la legalità perde il riferimento alla  giustizia (per corruzione, immoralità, negligenze, colpe, disattenzioni,  ecc…) solo chi è stato educato ad una coscienza libera ha la forza di  obbedire ai valori e di non rendersi complice dell’ingiustizia. Rispetto  a tale compito, sicuramente le nostre Chiese, scuole, famiglie, agenzie  educative devono diventare capaci di promuovere capacità critica verso  quel pensiero unico che ci omologa e ci rende incapaci di esercitare  pienamente la nostra libertà di persone. Il grande merito di don Milani –  da questo punto di vista - è stato certamente quello di aver visto in  ogni ragazzo non tanto un cittadino di domani, da trattare nel momento  presente, in attesa del futuro, come un utente o un consumatore. Lorenzo  vedeva invece in ogni ragazzo un cittadino di oggi, capace di operare  delle scelte, di mettersi in gioco, di farsi promotore di un mondo più  giusto. Oggi questo educare alla coscienza e responsabilità personale è  tanto più necessario quanto più si fanno pressanti i messaggi che  chiedono – per le più svariate finalità – il consenso degli individui  senza passare attraverso le loro capacità di giudizio, di esperienza, di  riflessione e di valutazione. Educare le coscienze diventa, quindi,  urgente oggi ancora più di ieri. Ripensare la “grammatica della vita”  deve davvero essere il primo e centrale impegno di ogni scuola, di ogni  famiglia, di ogni agenzia educativa: significa accompagnare chi cresce  nel ricostruire le esperienze, non circoscriverle al solo “pensare” o  “guardare” ma renderle concrete, fatte di conoscenze sì, ma anche di  emozione, di coinvolgimento, di comprensione vera e di capacità di  prendere posizione e di saper agire con la consapevolezza delle  conseguenze reali che questo comporta non soltanto per sé stessi. E’  questa l’unica via per costruire il presente ed il futuro all’insegna  della libertà.
  Don Luigi Ciotti in "L'obbedienza non è più una virtù" di don Lorenzo  Milani e il movimento per la pace e la non violenza. Con testimonianze  di Massimo Cacciari, Franco Cardini, Giancarlo Casell, don Luigi Ciotti,  Gad Lerner, padre Tonio Dell'Olio, Adriano Sofri, Gino Strada e padre  Alex Zanotelli.
           written by: Malfido time 11:39 | link | commenti (1)
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Cinque pensieri sulla felicità

Cfr. Umberto Galimberti, I miti del nostro tempo
Che  sia utopia o se ne abbia esperienza, la felicità resta comunque una  condizione esistenziale a cui tutti ambiscono e, incapaci di  raggiungerla, attribuiscono il fallimento agli altri o alle circostanze  del mondo esterno, quali l’amore, la salute, il denaro, l’aspetto  fisico, le condizioni di lavoro, l’età, e in generale tutta una serie di  fattori su cui non esercitiamo praticamente alcun potere di controllo.  Ciò induce molti di noi a esonerarci dal compito di essere non dico  felici, ma almeno propensi alla felicità, perché nulla possiamo fare di  fronte alle circostanze che non dipendono da noi.
Eppure la propensione alla felicità  è accessibile a qualsiasi essere umano, a prescindere dalla sua  ricchezza, dalla sua condizione sociale, dalle sue capacità  intellettuali, dalle sue condizioni di salute. Perché la felicità non  dipende tanto dal piacere, dall’amore, dalla considerazione o  dall’ammirazione degli altri, quanto dalla piena accettazione di sé, che  Nietzsche ha sintetizzato nell’aforisma “Diventa ciò che sei”. 
Distratti  da noi, fino a diventare perfetti sconosciuti, ci arrampichiamo ogni  giorno su pareti lisce per raggiungere modelli di felicità che abbiamo  assunto dall’esterno e, naufragando ogni giorno, perché quei modelli  probabilmente sono quanto di più incompatibile possa esserci con la  nostra personalità, ci incupiamo e distribuiamo malumore, che è una  forza negativa che disgrega famiglia, associazione, impresa, in cui  ciascuno di noi è inserito, perché spezza la coesione e l’armonia e  costringe gli altri a spendere parole di comprensione e compassione per  una sorte che noi e non altri hanno reso infelice.
Da  questo punto di vista la propensione alla felicità, e quindi il  buonumore, non è più una faccenda di “umori”, ma oserei dire un vero e  proprio dovere etico, non solo perché nutre il gruppo  che ci circonda di positività, ma perché presuppone una buona conoscenza  di sé, che automaticamente limita l’ampiezza smodata dei nostri  desideri, accogliendo solo quelli compatibili con le proprie  possibilità. Infatti, nello scarto tra il desiderio che abbiamo  concepito e le possibilità che abbiamo di realizzarlo c’è lo spazio  aperto, e talvolta incolmabile, della nostra infelicità, che ci rode  l’anima e mal ci dispone di fronte a noi e agli altri.
Quando  la felicità non viene ancorata alla brama del desiderio, ma alla  disposizione dell’anima, al “buon demone”, allora diventa coesistensiva  alla propria realizzazione e, in quanto coesistensiva, difficilmente può  essere persa o separata da noi. Non dunque una felicità come  soddisfazione del desiderio e neppure una felicità come premio alla  virtù, ma virtù essa stessa, come capacità di governare sé stessi per la propria buona riuscita, perché questa è la misura dell’uomo.
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