martedì 10 gennaio 2012

sabato, 16 ottobre 2010

Sabati pomeriggio

young_boy_1918_pencil_hiQuanti ragazzi di quel liceo preferirebbero passare un sabato pomeriggio con una nonna capace di sorprendenti merende invece di consumare, zitti e in piedi fra estranei, dolciastri surgelati riportati in vita nel microonde al bar del megastore?
Perché siamo infelici, cit., p. 71
written by: Malfido time 16:09 | link | commenti
sections: 14- letteratura arte opinioni
venerdì, 15 ottobre 2010

Come curare l’infelicità?

 mici amici
Aiutare a ricostruire, e a rivivere, emozioni perdute, emozioni complesse e inafferrabili come sono quelle della felicità e dell’infelicità, è una meta, ed è un compito, che non sono nemmeno proponibili, se non nel contesto di un’attitudine […] che consenta ad alcuni di noi […] di delineare una comunità di destino: tale da farci sentire, e da farci provare, il dolore e la speranza, la felicità e la infelicità degli altri come fossero nostre emozioni: nostri stati d’animo. Quando questo avvenga, allora consentiremmo a chi sta male, a chi ricerca le terre misteriose della felicità e della gioia, di dare parole alle emozioni che si rivivano; e in questi due modi di essere, e di confrontarsi con le emozioni perdute, o ricercate, o intraviste, si nasconde (forse) il segreto di ogni […] relazione di aiuto.
In ogni caso, ha un senso, e non ne ha alcuno, immaginare qualcosa che possa aiutare una persona a ritrovare in sé, nel suo orizzonte di valori, risorse interiori, magari ignorate e nascoste, che consentano di avvicinarsi alla felicità come appagamento esistenziale? Ci sono, in ciascuno di noi, umane possibilità che possano essere fatte riemergere dalla nostra interiorità e che corrispondano a esigenze, e a bisogni, ancora realizzabili al di là della nostra percezione delle cose?
[Ogni relazione di aiuto deve] indirizzare a riscoprire le strutture costitutive della personalità e la loro significazione in ordine alla storia della vita: alle sue realizzazioni e ai suoi fallimenti. Ciò implica l’analisi, e la descrizione, delle felicità vissute, ricercate e poi perdute: delle perdute ragioni che sono state a fondamento delle antiche esperienze di felicità. La riconsiderazione dialettica delle tematiche di felicità, che in passato si sono costituite come ragioni di felicità, e delle cause almeno apparenti che ne hanno determinato la scomparsa è uno dei sentieri aperti alla chiarificazione […] di ogni singola umana situazione.
Eugenio Borgna, Le figure della felicità, in: Perché siamo infelici, cit.

giovedì, 14 ottobre 2010

(In)felicità e genetica

ForestaSul tema dell’infelicità è appena uscita presso Einaudi la raccolta di 5 contributi di psichiatri e psicologi e di un genetista.
Intelligentemente, e provocatoriamente, il primo testo offerto al lettore è proprio quello del professor Edoardo Boncinelli, famoso docente di Biologia e Genetica presso vari istituti scientifici e università.
L’uomo è il risultato di numerosissime interazioni tra la genetica e l’ambiente:
Nasciamo con un cervello ancora piuttosto piccolo, rispetto a quello che sarà poi, e che ha bisogno di anni per raggiungere il suo pieno sviluppo. Come conseguenza di questa nostra particolarità, il nostro cervello finisce di svilupparsi mentre si trova già in contatto con il mondo esterno tramite gli occhi, le orecchie, l’epidermide e tutti i terminali sensoriali.
In questo contesto, rispetto al tema dell’infelicità, lo scienziato ha idee molto chiare: tutti siamo infelici, chi più chi meno; qualcuno lo è ogni tanto, qualcun altro spesso; alcuni se ne rendono conto e altri no.
L’uomo può soffrire di due tipi di infelicità, sintetizza Boncinelli.
La prima ha un chiaro antefatto evolutivo, che ci rende simili agli animali: è legata a un dolore fisico, o psichico, alla impossibilità di raggiungere un obbiettivo essenziale: mangiare, bere, dormire. Una persona è infelice perché misura lo scarto che c’è tra i suoi desideri e ciò che è riuscito, e riesce, a raggiungere nella vita. Siamo infelici perché non abbiamo raggiunto il nostro scopo: abbiamo problemi in famiglia, sul lavoro, nei rapporti.
Questo tipo di infelicità ha però un ruolo fisiologico ed evolutivo: se voglio una cosa e non la posso avere, entro in uno stato d’animo di frustrazione e di delusione che rinforza il mio sforzo per cambiare. La mia infelicità rafforza, e non poco, la mia motivazione. L’infelicità è una spinta.
Questa spinta avviene così, dal punto di vista biologico: l’abbassamento di umore, la tristezza, la depressione, scatenano nel cervello una controspinta, cioè la produzione di sostanze compensatrici, che il professore definisce proteine consolatorie, delle quali può esserci addirittura un’iperproduzione. Quando viene meno il motivo d’infelicità o di difficoltà mentale, di paura, di stress, la circolazione di queste proteine dà addirittura euforia. Per questo, chi non l’ha provato, ad esempio, superato un esame difficile all’università, o scampato un pericolo, ci si sente più determinati, più forti, più sereni: sono le sostanze compensatrici della tensione e della preoccupazione che restano in circolo. (Memorabile è questa sensazione il giorno della laurea…)
Quando si tratta di infelicità più profonde, legate ad esempio al lutto per qualcuno, o a un dispiacere o delusione persistenti, questo trucco biologico non riesce, e la sofferenza dura a lungo.
La biochimica ci dice che, in linea evolutiva, non è cambiato nulla. Sono cambiati solo i modi di esternalizzare il dolore, e di partecipare al dolore degli altri. Le potenzialità del corpo hanno sviluppato nel frattempo nuovi modi di manifestare il disagio, nuove somatizzazioni, e la medicalizzazione è venuta in soccorso dell’uomo, perchè se anche l’infelicità ci dà una spinta a crescere, il dolore fa male.
L’altro tipo di infelicità è senza motivo, e ci distingue radicalmente dagli animali. Gli animali, chi più chi meno, vivono alla giornata, e la loro memoria non è né vasta né persistente quanto quella di un essere umano. L’uomo possiede una memoria e una razionalità tali da essere in grado di paragonare e confrontare cose diversissime e lontanissime tra loro. L’uomo misura spesso l’inadeguatezza tra i propri obiettivi e i propri raggiungimenti, ci pensa e ci ritorna continuamente su. Spesso la percezione che il passato fosse meglio del presente si risolve in una spinta ad agire per modificare l’oggi. Ma, anche senza ragioni contingenti, il più delle volte si spalma un senso d’incompiutezza e d’inadeguatezza su tutta la propria vita, come una specie di inalienabile sottofondo.
L’uomo, per sua natura, si pone sempre nuovi obiettivi, e sempre più alti. Alla base di tutta la civiltà e di tutta l’evoluzione culturale, c’è la nostra natura progettuale, prospettica. Per il solo fatto di avere progetti, guardare lontano, immaginare insistentemente il nostro futuro, noi ci condanniamo ad essere sempre scontenti. Probabilmente, se fossimo sempre contenti, smetteremmo di fare progetti, e diventeremmo più cupi, accidiosi.
La grande spinta ad andare avanti è allo stesso tempo un buco incolmabile, un aspetto di quello che filosofi e poeti hanno sempre chiamato la nostra finitezza (termine senza senso, in realtà, perché di infinito non c’è nulla).
E proprio all’interno di questo sistema sono i problemi, le smagliature, le lacerazioni del nostro Io che ci permettono di osservarne il funzionamento. In medicina la patologia ci serve a chiarire com’è la fisiologia, e la dimenticanza illumina i percorsi della memoria.
Per ora la biologia non è in grado di spiegare perché questa infelicità “senza motivo” non sia uguale per tutti, forse esistono differenze individuali nei cicli biochimici tra euforia e depressione.
Non esiste il gene dell’infelicità. Tutto ciò che ad essa si riferisce è legato ad un complesso di geni nell’ordine di una decina di migliaia: non conviene alla natura far fare a un gene, o anche a dieci geni, qualcosa di fondamentale per la vita, perché coloro che avessero quel gene sbagliato sarebbero da subito fuori gioco.
E’ estremamente improbabile che l’uomo cambi nel profondo di ciò che è: il genetista dice che non è possibile. Però, fortunatamente, l’uomo non sa stare chiuso dentro una stanza, a non fare niente. Ha dentro l’animale che spinge, direbbe Battiato. E ha la cultura, la religione, la politica, il sociale per iniziare a cambiare, almeno collettivamente.
Cfr: Edoardo Boncinelli, L’infelicità come destino (e come spinta), in: AA.VV., Perché siamo infelici, Einaudi, 2010
written by: Malfido time 14:21 | link | commenti (2)
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mercoledì, 13 ottobre 2010

Si può insegnare la felicità?

Copia di fiori (22)La domanda non è peregrina se, prima all’Università di Harvard e più di recente in quella di Wellington, sono stati introdotti degli insegnamenti che hanno per oggetto la felicità e le modalità per conseguirla. La domanda che sorge spontanea è quella che si chiede se l’università, nella produzione e nella trasmissione del sapere, non abbia oltrepassato il suo limite, invadendo sin nelle sue pieghe più intime anche il mondo della vita, oppure se il tasso di solitudine, nonsenso, depressione, disperazione è così diffuso tra i giovani da mobilitare un intero corpo docente per insegnare loro, se non proprio a essere felici, a creare le condizioni per l’accadimento della felicità.
Se questa è la natura della felicità escludiamo che la si possa trasmettere per via di insegnamento, ma affermiamo anche che si possono insegnare le condizioni per il suo accadimento. Di questo si occupa la pratica filosofica, molto diffusa nei paesi anglosassoni, dove si sta recuperando il concetto originario di filosofia, nella modalità in cui i Greci l’hanno inaugurata innanzi tutto come cura dell’anima e governo di sé.
Cfr. Umberto Galimberti, I miti del nostro tempo
martedì, 12 ottobre 2010

Legalità

250px-08_tory_railtrack_ubtLa scuola è l'arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare il loro senso della legalità, dall'altro la volontà di leggi migliori, cioè il senso politico.

Don Lorenzo Milani

Frase scelta dall'I.T.I.S. Volta di Lodi per la Notte Bianca del 28 maggio 2010

Il vero e centrale nodo dell’educazione non sta tanto nell’insegnare la disubbidienza civile, quanto soprattutto nel saper realmente promuovere e sostenere l’obbedienza alla propria coscienza. Si tratta cioè di educare al coraggio e alla libertà del resistere di fronte a quelle forme di legalità che si rendono opache nei confronti della giustizia. Non dovremmo mai dimenticarlo: la legalità non è “fine”, ma “strumento” per raggiungere condizioni di vita più giuste per tutti e per ciascuno. Quando – per mille ragioni – la legalità perde il riferimento alla giustizia (per corruzione, immoralità, negligenze, colpe, disattenzioni, ecc…) solo chi è stato educato ad una coscienza libera ha la forza di obbedire ai valori e di non rendersi complice dell’ingiustizia. Rispetto a tale compito, sicuramente le nostre Chiese, scuole, famiglie, agenzie educative devono diventare capaci di promuovere capacità critica verso quel pensiero unico che ci omologa e ci rende incapaci di esercitare pienamente la nostra libertà di persone. Il grande merito di don Milani – da questo punto di vista - è stato certamente quello di aver visto in ogni ragazzo non tanto un cittadino di domani, da trattare nel momento presente, in attesa del futuro, come un utente o un consumatore. Lorenzo vedeva invece in ogni ragazzo un cittadino di oggi, capace di operare delle scelte, di mettersi in gioco, di farsi promotore di un mondo più giusto. Oggi questo educare alla coscienza e responsabilità personale è tanto più necessario quanto più si fanno pressanti i messaggi che chiedono – per le più svariate finalità – il consenso degli individui senza passare attraverso le loro capacità di giudizio, di esperienza, di riflessione e di valutazione. Educare le coscienze diventa, quindi, urgente oggi ancora più di ieri. Ripensare la “grammatica della vita” deve davvero essere il primo e centrale impegno di ogni scuola, di ogni famiglia, di ogni agenzia educativa: significa accompagnare chi cresce nel ricostruire le esperienze, non circoscriverle al solo “pensare” o “guardare” ma renderle concrete, fatte di conoscenze sì, ma anche di emozione, di coinvolgimento, di comprensione vera e di capacità di prendere posizione e di saper agire con la consapevolezza delle conseguenze reali che questo comporta non soltanto per sé stessi. E’ questa l’unica via per costruire il presente ed il futuro all’insegna della libertà.
 
Don Luigi Ciotti in "L'obbedienza non è più una virtù" di don Lorenzo Milani e il movimento per la pace e la non violenza. Con testimonianze di Massimo Cacciari, Franco Cardini, Giancarlo Casell, don Luigi Ciotti, Gad Lerner, padre Tonio Dell'Olio, Adriano Sofri, Gino Strada e padre Alex Zanotelli.
lunedì, 11 ottobre 2010

Cinque pensieri sulla felicità

Copia di nikon07 336
Cfr. Umberto Galimberti, I miti del nostro tempo
Che sia utopia o se ne abbia esperienza, la felicità resta comunque una condizione esistenziale a cui tutti ambiscono e, incapaci di raggiungerla, attribuiscono il fallimento agli altri o alle circostanze del mondo esterno, quali l’amore, la salute, il denaro, l’aspetto fisico, le condizioni di lavoro, l’età, e in generale tutta una serie di fattori su cui non esercitiamo praticamente alcun potere di controllo. Ciò induce molti di noi a esonerarci dal compito di essere non dico felici, ma almeno propensi alla felicità, perché nulla possiamo fare di fronte alle circostanze che non dipendono da noi.
Eppure la propensione alla felicità è accessibile a qualsiasi essere umano, a prescindere dalla sua ricchezza, dalla sua condizione sociale, dalle sue capacità intellettuali, dalle sue condizioni di salute. Perché la felicità non dipende tanto dal piacere, dall’amore, dalla considerazione o dall’ammirazione degli altri, quanto dalla piena accettazione di sé, che Nietzsche ha sintetizzato nell’aforisma “Diventa ciò che sei”.
Distratti da noi, fino a diventare perfetti sconosciuti, ci arrampichiamo ogni giorno su pareti lisce per raggiungere modelli di felicità che abbiamo assunto dall’esterno e, naufragando ogni giorno, perché quei modelli probabilmente sono quanto di più incompatibile possa esserci con la nostra personalità, ci incupiamo e distribuiamo malumore, che è una forza negativa che disgrega famiglia, associazione, impresa, in cui ciascuno di noi è inserito, perché spezza la coesione e l’armonia e costringe gli altri a spendere parole di comprensione e compassione per una sorte che noi e non altri hanno reso infelice.
Da questo punto di vista la propensione alla felicità, e quindi il buonumore, non è più una faccenda di “umori”, ma oserei dire un vero e proprio dovere etico, non solo perché nutre il gruppo che ci circonda di positività, ma perché presuppone una buona conoscenza di sé, che automaticamente limita l’ampiezza smodata dei nostri desideri, accogliendo solo quelli compatibili con le proprie possibilità. Infatti, nello scarto tra il desiderio che abbiamo concepito e le possibilità che abbiamo di realizzarlo c’è lo spazio aperto, e talvolta incolmabile, della nostra infelicità, che ci rode l’anima e mal ci dispone di fronte a noi e agli altri.
Quando la felicità non viene ancorata alla brama del desiderio, ma alla disposizione dell’anima, al “buon demone”, allora diventa coesistensiva alla propria realizzazione e, in quanto coesistensiva, difficilmente può essere persa o separata da noi. Non dunque una felicità come soddisfazione del desiderio e neppure una felicità come premio alla virtù, ma virtù essa stessa, come capacità di governare sé stessi per la propria buona riuscita, perché questa è la misura dell’uomo.

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