martedì 10 gennaio 2012

venerdì, 24 dicembre 2010

Zingarelli 16: Eufemismi: il portafogli

schiele schreibtischUna settimana fa passeggiavo a Milano, lungo il Quadrilatero della Moda, che è una fonte inesauribile di tempo sospeso, senza pensieri. Mi sono divertita quando ho visto la gamma di portafogli disponibili in una famosa pelletteria, e ho pensato, ancora in lire, alle centinaia di migliaia di carte da mille che sarebbero dovute starci nei medesimi portafogli per corrispondere la cifra alla quale mediamente ciascun borsellino era venduto.

Dev’essere esistita una fase della lingua italiana in cui essere ricchi sfondati, avere il portafoglio gonfio, era davvero considerato sfacciato, perciò si faceva genericamente riferimento ai dei banali fogli di carta che i borsellini avevano il compito di portare.

Che classe. Altri tempi. 
written by: Malfido time 21:13 | link | commenti
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venerdì, 17 dicembre 2010
gladiolusPer caso, ieri sera, dopo aver messo Cinaski sul blog, mi sono imbattuta in una poesia di Neruda che in molti amiamo perché ci ricorda com’era fatto Massimo Troisi. Quando ho fatto il tema alla maturità, mi ricordo che ho citato la scena in cui il postino ringraziava il poeta sudamericano per aver scritto in un verso “mi stanco di essere uomo”, aggiungendo che spesso anche lui si sentiva così, ma non lo sapeva dire. All’inizio di un’amicizia da romanzo il poeta minimizza, quasi con fastidio, perché l’arte poetica di quel periodo ormai lontano ora gli sembra fin troppo elementare. Mario non c’entra con quel malumore, forse nemmeno se ne accorge, e i suoi occhi acquosi, il suo sguardo buonissimo, diventeranno qualcosa di unico e indimenticabile per Neruda che, nonostante l’unanime successo, è un tipo che ogni tanto si snerva di tutto: delle città, della natura delle cose, di sé e delle sue battaglie.
C’è sempre un buon motivo per fare un tributo a Neruda, non so se Chinaski è d’accordo. Ad ogni modo secondo me la figura scalza e vestita di rosso, che sta in fondo alla poesia di Costantino sul tempo che passa, avrebbe benissimo potuto portarsi a presso un verso come “e fa passi di sangue caldo verso la notte”. Il componimento qui sotto termina appunto col poeta per la strada, come un Chinaski qualsiasi, che si ascolta il passo e si guarda i piedi mentre cammina, indeciso se trattenere o dimenticare le immagini che vede.
Nel loro aspetto picaresco, lasciamo che queste due poesie s’inseguano, in maniera più o meno clandestina. L’immagine dei gladioli in cima a tutto quanto è d’obbligo, essendo questi fiori a forma di spade un must dell’orto di mio padre. Mi diverte un sacco che Neruda ne faccia un’arma d’assalto per spaventare un cancelliere del tribunale.
 
Succede che mi stanco di essere uomo.
Succede che entro nelle sartorie e nei cinema
smorto, impenetrabile, come un cigno di feltro
che naviga in un'acqua di origine e di cenere.
 
L'odore dei parrucchieri mi fa piangere e stridere.
Voglio solo un riposo di ciottoli o di lana,
non voglio più vedere stabilimenti e giardini,
mercanzie, occhiali e ascensori.
 
Succede che mi stanco dei miei piedi e delle mie unghie
e dei miei capelli e della mia ombra.
Succede che mi stanco di essere uomo.
 
Dopo tutto sarebbe delizioso
spaventare un notaio con un gladiolo mozzo
o dar morte a una monaca con un colpo d'orecchio.
Sarebbe bello
andare per le vie con un coltello verde
e gettar grida fino a morire di freddo.
 
Non voglio essere più radice nelle tenebre
barcollante, con brividi di sonno, proteso
all'ingiù, nelle fradice argille della terra,
assorbendo e pensando, mangiando tutti i giorni.
 
Non voglio per me tante disgrazie.
Non voglio essere più radice e tomba,
sotterraneo deserto, stiva dei morti,
intirizzito, morente di pena.
 
E perciò il lunedì brucia come il petrolio
quando mi vede giungere con viso da recluso
e urla nel suo scorrere come ruota ferita
e fa passi di sangue caldo verso la notte.
 
E mi spinge in certi angoli, in certe case umide,
in ospedali dove le ossa escono dalla finestra,
in certe calzolerie che puzzano d'aceto,
in strade spaventose come crepe.
 
Vi sono uccelli color zolfo e orribili intestini
appesi alle porte delle case che odio,
vi sono dentiere dimenticate in una caffettiera,
vi sono specchi
che avrebbero dovuto piangere di vergogna e di spavento,
vi sono ombrelli dappertutto e veleni e ombelichi.
 
Io passeggio con calma, con occhi, con scarpe,
con furia, con oblìo,
passo attraverso uffici e negozi ortopedici
e cortili con panni tesi a un filo meccanico:
mutande, asciugamani e camicie che piangono
lente lacrime sporche.
 
PABLO NERUDA
mercoledì, 15 dicembre 2010
Copia di RSCN2531
D'inverno il tempo che passa è una fatica tremenda: cose da fare, poche ore di luce, il Natale arriva e fa fare i conti a tutti. Visto il passaggio milanese di Mr. Pall e Mr. Mall difficile non affidare questo pensiero a Vincenzo Costantino, un poeta che somiglia a se stesso. Il tempo che passa si scontra con l'eterno ritorno dell'uguale, con la fissità, le indecisioni. Personalmente d'inverno non ho tempo di pensarci e di sentirmi in debito col mondo, ma mi suggestiona l'idea che il tempo sia una figura scalza e vestita di rosso, come il Cristo Risorto sulle immaginette, o come una creatura della notte che non ricorda più dove ha perso le scarpe.  


[...]
Riverberi di musica
Il tempo sta passando 
Vorrei andare in Africa
Il tempo sta passando 
 Le luci mi addormentano
I suoni mi rimbalzano
Il tempo sta passando 
L'aria diviene torrida
L'acqua scorre ruvida
Il fuoco brucia spento
Il tempo sta passando 
 La neve si riposa
Gli uccelli non mi cagano
I fari non mi abbagliano
Che l'asfalto mi cancella
E il tempo sta passando....
.... il tempo sta passando
vestito di rosso
senza scarpe
martedì, 14 dicembre 2010

Truth is beauty

geraniNella famosa "Ode on a Grecian Urn" il romantico John Keats conclude che tutto ciò che ognuno debba sapere è che verità è bellezza e bellezza è verità. Mi scuote la commozione profonda dei 19 anni, quando si sente di dover conoscere almeno qualche verità. E sono in prima fila tra gli studenti di qualche anno dopo, che applicano questo assunto alla meravigliosa utopia di un mondo che ha prodotto, e messo in circolazione, idee e forme dell’Illuminismo, del Romanticismo e del Classicismo, senza soluzione, come venti che si rincorrono a formare nodi.
Oggi, che ho visto gente e ho fatto cose, sono ancora convinta che ciò che ci salva e ci dà statura morale sia il rapporto tra verità e bellezza. Specialmente perché nei romanzi di Sciascia la verità è talmente nota che ognuno ne conosce un pezzo e, nonostante ciò, non diventa mai verità giudiziale. E anche perché, tra gli attuali fatui modelli di bellezza, spesso spariscono la bontà, la proporzione, la naturalezza.
Per nostra fortuna esistono vicende eccezionali che sono vere, e riescono a riequilibrare in noi il senso di ciò che ci rapisce, ci ispira, e che desidereremmo afferrare perché restasse.
Una storia così è riassunta dentro “La bellezza e l’inferno” di Roberto Saviano. Qualche delatore penserà che il titolo di questo libro fa banalmente sensazione, invece è un tributo a “L’uomo in rivolta” di Camus, la storia di un ufficiale tedesco sbattuto in Siberia tra la fame, il gelo e la pazzia, che suonando un pianoforte immaginario capisce che l’inferno ha un tempo solo, mentre la vita, un giorno, ricomincia.
Quando ho bisogno di leggere che cos’è la bellezza vado più o meno a pagina 60, dove Saviano racconta la storia di Michel Petrucciani, il pianista cresciuto con una patologia che gli ha dato ossa fragilissime e una statura da nano, e che purtroppo è morto già più di dieci anni fa.
Lo scrittore racconta il suo grande talento, ma ciò che descrive meglio è il suo straordinario amore per la vita. “Inno alla vita” è un’espressione abusata e in fin dei conti Petrucciani faceva jazz. Ma è stato uno straordinario compositore di vita.
Il suo esempio, dice Saviano, permette di riconoscere il meccanismo della bellezza: una donna innamoratissima di lui ha detto che quando lo vedeva, vedeva ciò che Michael sapeva immaginare, tutto ciò che era, ed era bellissimo.
“La bellezza non è solo tratto somatico, eleganza, luce, fascino. E’ la capacità di far vedere ciò che si è. Assomigliare a ciò che si immagina, mostrare ciò che si è veramente.”
sabato, 11 dicembre 2010
grazzano Per me leggere Gomorra è stata dura, perché la fitta documentazione, le indagini, gli aspetti brutali rendono la lettura laboriosa e lenta. Ma poi è chiaro che c’è un’altra ragione: è difficile conoscere la verità, la complessità del reale, nei suoi aspetti oscuri, problematici, minacciosi, criminali.
In un distico di Goethe, il genio diceva: “Qual è la cosa più difficile di tutte? Quella che sembra più facile: guardare coi propri occhio ciò che sta davanti ai propri occhi”.
Il senso del dovere, il rispetto per il lavoro, la necessità di vigilare e di saper scegliere, cambiano dopo la micidiale cura di scossoni che è questo libro.
Ho interrotto e diluito la lettura di Gomorra perché ho dovuto attendere che la vita andasse di pari passo ad insegnarmi alcune cose amare, che imparano tutti. Il continuo coinvolgimento diretto di Roberto Saviano, testimone e cronista, conferma che maturiamo soltanto dalla nostra esperienza, ecco perché ci vuole tutta la vita, come dice Goethe, per aprire gli occhi. E non è che accogliere Gomorra, o qualunque altra proposta di approfondimento su temi civili (ma perché, esistono temi incivili?!?), sia uno scarico di coscienza. E’ più un peso da porre sul cuore, sullo stomaco, sulle spalle.
Dunque ci si accorge che soffrire ed arrabbiarsi davanti all’ingiustizia non basta affatto per essere delle brave persone. Deciso di stare su un versante solo, quello della legalità, le persone pagano un prezzo, e questo è sempre più alto perché equivale alla dignità che serve per fare la propria parte, semplicemente e di buon grado, nonostante l’arbitrarietà, la manica larga, la corruzione, le violazioni. La normalità, i bisogni, mettono alla prova i nostri valori tanto quanto le più grandi responsabilità.
E come viatico io apprezzo molto anche La bellezza e l’inferno, che contiene vari testi scritti da Saviano tra il 2004 e il 2009.
Io, ad esempio, condivido quanto segue, e mi rallegro di non essere cinica.
Bisogno di distruggere tutto ciò che può essere desiderio e voglia: questo è il cinismo. Il cinismo è l’armatura dei disperati che non sanno di esserlo. Vedono tutto come una manovra furba per arricchirsi, la pretesa di cambiare come un’ingenuità da apprendisti stregoni e la scrittura che vuole arrivare a molti come una forma di impostura da piazzisti. A questi signori diffidenti e perennemente armati del ghigno di chi sa già che tutto finirà male nulla può essere tolto, perché non hanno più nulla per cui valga la pena di lottare. Però non possono essere cacciati dalle loro case che sono spesso allestite con gusto, curate. La loro arte, la loro idea della parola, somiglia a quelle case belle e non vuole abbandonare il loro perimetro ben arredato. Ma nel privilegio delle loro vite disilluse e protette, non hanno idea di che cosa possa veramente voler dire scrivere.
La bellezza e l’inferno, pp.8-9
written by: Malfido time 08:00 | link | commenti
sections: 14- letteratura arte opinioni
venerdì, 10 dicembre 2010

Postilla: Dérèglement

gargoyleLa corruzione è la nostra unica speranza. Finché c’è quella, i giudici sono più miti, e in tribunale, perfino un innocente, può cavarsela.

Bertolt Brecht, Madre Coraggio e i suoi figli, 1939

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