martedì 10 gennaio 2012

venerdì, 22 luglio 2011

Ulisse kafkiano

ulyssesSecondo Brecht le sirene hanno gonfiato Ulisse di insulti, per il suo essersi fatto legare all’albero della nave, prima di esporsi al loro canto, il quale quindi nulla gli rivelò dei misteri dell’orecchio e delle lusinghe umane. Per questo l’eroe si contorceva, secondo Brecht, mentre le bellissime creature marine riempivano le gole. Ma i suoi compagni, assordati dai tappi cera, non l’hanno mai saputo.

Il 23 ottobre 1917 Franz Kafka è di un altro avviso.
Ulisse non era affatto ben attrezzato per resistere al canto delle sirene, anche se ne era ingenuamente convinto. Si è salvato perché quelle creature, prima incantevoli e poi mostruose, hanno scelto di opporgli il loro silenzio.

Così Ulisse ha attraversato la sua esistenza pensando di essere stato l’unico a non aver udito il loro canto, mentre ricordava di come esse andassero scomparendo quanto più egli si avvicinava. Le Sirene furono forse vinte dal suo ardimento, soddisfando così il suo orgoglio, oppure furono con-vinte, persuase e superate, suggerisce Kafka, dalla sua puerilità, dalla sua felicità innocente, espressa dal riflesso lucente dei suoi grandi occhi.
Un’altra spiegazione possibile è che Ulisse in realtà abbia sempre saputo del silenzio delle sirene, ma che abbia scelto di aderire alla finzione del racconto, consapevole, alla fine di tutto, di essersi salvato. Ulisse, come personaggio kafkiano, era anche cosciente che il segreto di quel silenzio interroga il silenzio stesso di Dio, il Dio che, secondo la Kabalàh, deve restare nascosto e inaccessibile per non distruggere il mondo con la sua Giustizia.
A voi il racconto integrale, da me amorevolmente trascritto (op. cit., pp. 407-8).
Dimostrazione del fatto che anche i mezzi inadeguati o magari puerili possono giovare ai fini della salvezza:
Per proteggersi dalle Sirene, Ulisse si riempì di cera e si fece incatenare all’albero della nave. Naturalmente, dacché mondo è mondo avrebbero potuto fare la stessa cosa tutti i naviganti, tranne quelli che le Sirene ammaliavano già da lontano, ma in tutto il mondo era risaputo che quell’espediente non sarebbe giovato a nulla. Il canto delle Sirene penetrava qualsiasi cosa, e la passione di quanti si eran lasciati sedurre avrebbe spezzato ben altro che catene e alberi di nave. A ciò però Ulisse non pensava, sebbene forse ne avesse udito parlare. Egli confidava completamente in quella manciata di cera e in quel fascio di catene e, nella felicità innocente conferitagli da quei piccoli sotterfugi, mosse incontro alle Sirene.
Le Sirene però posseggono un’arma ancor più terribile del canto, vale a dire il loro silenzio. Anche se non è mai accaduto, è forse pensabile che qualcuno abbia potuto magari salvarsi dal loro canto: ma dal loro silenzio, sicuramente no. Al sentimento che si deve provare per averle vinte con la propria forza, e all’orgoglio che ne segue e che tutto travolge, non può resistere alcuna creatura terrestre.
Ed effettivamente, quando Ulisse arrivò, le possenti cantatrici non cantavano, sia che ritenessero che un tale avversario potesse essere convinto soltanto dal silenzio, sia che la vista della beatitudine sul volto di Ulisse, il quale non pensava ad altro che a cera e catene, facesse loro dimenticare ogni canto.
Ulisse però, se così si può dire, non udiva il loro silenzio; egli credeva che esse cantassero, e che lui soltanto fosse preservato dall’udirle. Vide fugacemente, dapprima, l’oscillare delle loro gole, il respirare profondo, gli occhi colmi di lacrime e le bocche appena dischiuse, ma credette che ciò facesse parte delle melodie che si spegnevano inascoltate intorno a lui. Ben presto tutto finì però per passare inosservato ai suoi sguardi fissi nella lontananza, e le Sirene disparvero letteralmente dinanzi alla sua risolutezza, e proprio quando egli fu loro maggiormente vicino egli non seppe più nulla di loro.
Esse però -più belle che mai- si protendevano e si contorcevano, lasciando ondeggiare al vento la loro orrida chioma e distendendo, nudi, gli artigli sulle rocce. Non volevano più sedurre, volevan soltanto afferrare, il più a lungo possibile, il riflesso lucente  dei grandi occhi di Ulisse.
Se le sirene fossero dotate di consapevolezza, quella volta sarebbero rimaste annientate. E invece sopravvissero; soltanto Ulisse è riuscito a sfuggir loro.
D’altra parte, in aggiunta a questa leggenda, si tramanda ancora un’appendice. Si dice che Ulisse fosse così astuto, che egli fosse una volpe talmente scaltra che neppure la dea del destino riusciva a penetrare nel suo animo. Forse egli (sebbene questo non sia più afferrabile dall’intelletto umano) si è veramente accorto che le Sirene tacevano, e non ha fatto altro che opporre, sia a loro che agli dèi, per così dire a guisa di scudo la finzione precedentemente riferita.  

Sancio kafkiano

picasso-pablo-don-chisciotte-1955Tra i racconti di Franz Kafka pubblicati postumi, alcuni dei quali meravigliosamente datati e quindi da associare ad un giorno dell’anno preciso, ve n’è una serie che potremmo definire, brechtianamente, “Rettifiche di antichi miti”.

Breve e chiarissimo è “La verità su Sancho Pancia”, del 21 ottobre 1917, che qui riporto per intero, sempre dal mio volume BUR, che lo pubblica a p. 406.

Nei folli, come Don Chisciotte, Kafka scorge una tenue, inestinguibile speranza.
Grazie a una serie incredibile di romanzi cavallereschi e di storie di briganti lette nelle ore serali e notturne, Sancio Pancia, che peraltro non se ne fece mai un vanto, riuscì così bene con il passare degli anni a distrarre da sé il proprio demone, al quale diede in seguito il nome di Don Chisciotte, che costui si lanciò quindi senza ritegno nelle imprese più folli le quali però, in mancanza di un oggetto determinato in precedenza, che avrebbe dovuto essere appunto Sancio Pancia, non facevano male a nessuno. Mosso forse da un certo senso di responsabilità, Sancio Pancia, che era un uomo libero, seguì imperterrito Don Chisciotte nelle sue scorribande, ricavandone sino alla fine un divertimento non privo di grandezza e di utilità. 
giovedì, 21 luglio 2011
CIELOPrimo Levi scrisse che “Kafka comprende il mondo con una chiaroveggenza che stupisce, e che ferisce come una luce troppo intensa”.  Perspicace, visionario, laconico, allegorico, attuale, raffinato, estenuato, più di tanti, in una parola, consapevole.
Per passione, io dunque continuo a cercare descrizioni di ciò che Kafka associa a quest’ora, il crepuscolo.
Si era forse in quel breve e sereno intervallo fra il giorno e la notte quando, senza che ce lo aspettiamo, la testa ci ciondola sul collo e quando, senza che ce ne accorgiamo, tutto è immobile, perché non stiamo osservando, e poi svanisce. E mentre noi, rimasti soltanto in compagnia di quel corpo reclinato, ci guardiamo intorno senza vedere più nulla e senza più avvertire neppure la resistenza dell’aria, e dentro di noi ci aggrappiamo al ricordo che, poco lontano da noi, ci sono case con tetti e, per fortuna, con angolosi comignoli attraverso cui l’oscurità fluisce nelle case e, attraverso i solai, nelle stanze più disparate. Ed è una fortuna che domani sarà un giorno in cui, per quanto ciò sia incredibile, si potrà distinguere ogni cosa.
F. Kafka,cit, p. 307 
n ottePubblicato in rivista nel 1909, il Dialogo con l’ubriaco di Franz Kafka è un racconto che fa parte della prima stesura di Beschreibung eines Kampfes, “Descrizione di una lotta”. Il protagonista, come molti Io narranti dell’autore, esce solo, nella grande città, verso sera. Ha, guarda caso, ventitré anni.

Sul far della sera è quando, nella scrittura di Kafka, superate le faccende più varie della giornata, ci si domanda come raccontare, come comprendere, come vivere.
Assai raramente, in Kafka, mancano dei paradossi, a testimoniare ciò che persiste al di là di ogni possibile Betrachtung, osservazione, visione, opinione. Ad esempio, quello intorno al quale ruota questo dialogo è, con parole sue,  che cosa salutare dev’essere quando un pensatore impara da un ubriaco.

A me appassiona il piglio col quale il giovane protagonista, in qualche misura gracile e tenace, si spinge fino al centro di Vienna, o di Praga, che sia, come se non ci fosse nessuno, ed entra in dialogo con la luna e le stelle, e con la città, che gli oppongono un silenzio irreale.

Quando uscii, a piccoli passi, dal portone mi vidi assalito dal cielo con la luna e le stelle, dalla grande volta celeste e dalla piazza del Ring con il Municipio, la Chiesa e la Colonna della Beata Vergine.
Emersi tranquillamente dall’ombra e mi esposi ai raggi lunari; mi sbottonai il pastrano e mi scaldai; poi, con un cenno delle mani, feci tacere il brusio della notte e iniziai le mie meditazioni:
“Perché mai vi comportate come se esisteste veramente? Volete indurmi a credere che irreale sono io e che me ne sto in modo buffo sul selciato verdastro? Eh sì, n’è passato davvero di tempo da quando tu, cielo, esistevi realmente, mentre tu, Piazza del Ring, non sei mai esistita realmente!”.
“Sì, è vero, voi siete ancora molto al di sopra di me, ma solo quando vi lascio in pace.”
“Grazie a Dio, tu o luna non sei più la luna! Ma forse è per sbadataggine che mi ostino a chiamarti luna, perché sei chiamata da tutti con questo nome. Come mai non sei più tanto tronfia quando ti chiamo “obliato lampioncino cartaceo dalle tinte bizzarre?” E perché mai sembri quasi schernirti quando ti chiamo “Colonna della Vergine” o quando ti chiamo “luna che diffonde una luce giallastra”? Ebbene, mi pare proprio che non vi sia salutare se si riflette su di voi: ci rimettete in coraggio e in salute. ”

Franz Kafka, I racconti, BUR, 304-5. 
 

VIAGGIARE

irisUn'amica mi ha regalato "L'alchimista" di Paulo Coelho, e dunque lo leggo. Se ci fosse qualcuno in grado di capirmi, direi che per me Coelho è il Baricco brasiliano... Intendo che letto uno letti tutti. Questo è il secondo: l'altro suo libro che conosco me lo regalò la mia catechista per i miei 18 anni...

Ci sono troppe fiabe e racconti fantastici sul tema dell'alchimia nel romanticismo tedesco, perchè ciò che lui scrive io non l'abbia già letto. Ma forse questo senso di ritorno è strutturale ad un certo tipo di narrativa.

Ricordo anche che, in molti fumetti che divoravo, Dylan s'imbatteva nel linguaggio delle rune, in druidi sotto mentite spoglie, in conoscitori dei calendari lunari e, poi, naturalmente, in creature provenienti dall'infinito.

Senz'altro l'esoterismo ha una funzione molto importante nel definire gli archetipi che tutti condividiamo, sognamo, sfidiamo: discutiamo di segni e casualità, rincorriamo il mito della ricerca della propria strada, impresa che è definita, nel libro, come l'attuazione della propria Leggenda Personale, che si attualizza, assumendo una dimensione, in corrispondenza di ogni nostra scelta.

Oggi teniamo da parte questo curioso inizio:

"Desidera qualcosa?" domandò l'impiegato dietro lo sportello.
"Forse domani", rispose il ragazzo allontanandosi.
[...]
"Un altro sognatore", concluse il tizio dello sportello rivolgendosi al collega, mentre il ragazzo si allontanava.
"Non ha soldi per viaggiare".

p. 41
written by: Malfido time 14:05 | link | commenti
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Così ci si rilassa, dalle mie parti...

panda relax

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