martedì 10 gennaio 2012

lunedì, 01 agosto 2011
narciso_caravaggio1Ogni amore è […] una relazione con una divinità che nel profondo ci abita o, se preferiamo, dal momento che il nostro linguaggio ha tradotto la mitologia in patologia, con una delle nostre passioni. Per questo ogni incontro d'amore è una storia diversa, anzi è un capitolo di quella storia infinita che è la ricognizione di sé. Quel che però gli innamorati ignorano è che la persona di cui si innamorano è lì solo perché, meglio di altri, riflette, come uno specchio, l'attivarsi di una movenza della nostra anima, che noi patiamo, e perciò la chiamiamo "passione". Ma la storia è con le nostre passioni. L'altra persona non c'entra.
Cfr. Umberto Galimberti, Le cose dell’amore 

La psicologia del viandante

picasso6Se ogni strada ha in vista una meta, non possiamo pretendere dalla strada la felicità promessa dalla meta. Se poi la meta ci inganna, ritorniamo per strada, ma dai nostri e dagli altrui passi delusi non possiamo attendere felicità. A meno di rinunciare alla meta per godere dei paesaggi che la strada, di volta in volta, dischiude. Ma per questo bisogna acquisire la psicologia del viandante, che, senza meta, senza punti di partenza e di arrivo che non siano punti occasionali, trova solidarietà tra quanti, al pari di lui nomadi, vivono il mondo nella casualità della sua innocenza non pregiudicata da alcuna meta da raggiungere, dove è l'accadimento stesso, l'accadimento non iscritto nelle prospettive di un progetto finale a dare felicità. Allora, e solo allora, si incontra vera amicizia e vera solidarietà. Ma noi occidentali non abbiamo una psicologia nomade. Corrotti dalle mete che i progetti ci propongono, conosciamo dell'amicizia e della solidarietà solo i cascami, ciò che resta di progetti mancati.

Cfr. Umberto Galimberti, Parole nomadi 
written by: Malfido time 15:30 | link | commenti
sections: 14- letteratura arte opinioni

Il principio di non-contraddizione e la follia

friedPer capire qualcosa della follia dobbiamo partire dalla ragione, che non è altro che un sistema di regole condivise, grazie alle quali è possibile disporre di una comunicazione univoca e di comportamenti prevedibili. Tutte le cose, infatti, sono polivalenti quanto al loro significato: un coltello ad esempio può essere quello strumento che normalmente utilizziamo a tavola, ma può anche essere un'arma impropria. Un pennarello nelle mani di un bambino può fungere da strumento per disegnare, da biberon da succhiare, da oggetto offensivo nel caso venga gettato in testa al fratellino. Quando le mamme, oggi sempre meno, interdicono con i loro "no" gli usi impropri delle cose, stanno insegnando ai bambini il principio di non contraddizione, che è il principio fondante la ragione, per cui una cosa è quella cosa e "non altro". Grazie a questo principio, quando chiedo un coltello non ho nulla da temere da chi me lo porge, e quando un bambino prende un pennarello, il fratellino non si agita. Tutto ciò alla sola condizione che tutti si attengano a quella regola razionale che limita il significato delle cose a un unico significato, con assoluta esclusione di altri. Perché, in caso contrario, i comportamenti diverrebbero imprevedibili e la convivenza impossibile. Ma la ragione è solo un sistema di regole che noi utilizziamo nel rapporto con gli altri, e se dal plurale passiamo al singolare vediamo che i nostri pensieri oltrepassano la linea di demarcazione razionale: per cui c'è un certo timore e pudore a narrare in pubblico il significato che in privato assegniamo alle cose, a partire dalle nostre sensazioni del momento, dalle nostre pulsioni, dai nostri incantamenti, dai nostri spunti poetici. Non è forse "folle", dal punto di vista razionale, chiedere, come fa Leopardi: "Dimmi che fai tu luna in ciel?", sapendo perfettamente che la luna non può rispondere. I poeti, infatti, sono tali perché debordano dai limiti della ragione, e per questo giustamente Heidegger li chiama "i più arrischianti". Oltre al plurale (dove, sotto il regime della ragione, la follia è bandita) e al singolare (dove, oltrepassando le regole della ragione, la follia trova espressione), c'è anche il duale, dove per esempio gli innamorati mettono in comune le loro follie, producendo un linguaggio che, nei significati più reconditi, capiscono solo loro. Le loro parole, infatti, sconfinano nelle forme deliranti che si annunciano in espressioni come "senza di te mi casca il mondo" o "solo con te la mia vita ha un senso", per cui Freud dice giustamente che l'innamoramento è un delirio che ha l'unico pregio di essere breve. Nel singolare e nel duale ciascuno di noi è folle, e solo nel plurale, solo nel rapporto con gli altri, ci produciamo nella ragione, attenendoci alle sue regole che ci consentono di rendere univoche le nostre parole e prevedibili i nostri comportamenti. Nella ragione siamo tutti uguali: solo nella nostra segreta follia, che lasciamo emergere nei nostri intimi soliloqui, nelle condizioni d'amore e nella creatività letteraria e artistica, siamo davvero noi stessi. Quando poi dalla follia che ci costituisce non riusciamo più ad approdare alla ragione, allora siamo nella patologia, mascherata o palese, che affligge l'anima e ci mette ai margini, quando non ci esclude, della relazione sociale. Ma non dimentichiamoci: è la nostra follia che ci individua e ci fa uno diverso dall'altro, e che quando è contenuta in limiti accettabili è l'unica condizione che ci fa innamorare e creare.
Cfr. Umberto Galimberti, Psicologia 
written by: Malfido time 15:25 | link | commenti
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Guerra e Libertà

snoopy-che-scriveI giorni di vacanza mi consentono di mettere in ordine diversi materiali accumulati in quest’ultimo anno, non confluiti in questo virtuale catalogo di appunti perché, come qualcuno mi suggerisce, un buon criterio di archiviazione è anche la sinteticità, che in quel momento non avevo tempo di ricercare. Ecco dunque una serie di dialoghi condotti dal professor Umberto Galimberti.

Il tema di questo primo intervento dal magazine di Repubblica è il rapporto tra la guerra e la libertà.

A partire dalla necessità e legittimità della guerra si potrebbe subordinare il valore della vita umana al valore della libertà, perché dove non si è liberi non c'è alcuna possibilità di autorealizzazione della propria vita. E allora la guerra per la conquista della propria libertà o per correre in aiuto a chi la vuol conquistare, è legittima. E tutti quelli che, come me, ritengono che la guerra sia un male assoluto, da cui l'umanità, dal primo giorno della sua comparsa, non si è ancora liberata, sono degli utopisti che sognano, se non addirittura dei pacifisti a buon mercato. Può essere, ma quel che non mi convince è il primato sostenuto della libertà sulla vita. Se la vita in gioco è quella degli oppressi che preferiscono morire che vivere in quelle condizioni, allora siamo all'insurrezione o alla rivoluzione, o alla fuga rischiosa e non di rado mortale dai propri Paesi, ma non possiamo parlare di guerra. Mentre invece se il riferimento è ai Paesi che intervengono per porre fine a un regime totalitario, non credo che la motivazione di fondo sia quella di restituire alle popolazioni la libertà. Lo stesso intervento americano che ci ha liberato dal fascismo forse è avvenuto anche perché non era interesse americano avere un Europa hitleriana, soprattutto dopo il patto Molotov-Ribbentrop che sanciva l'alleanza tra Hitler e Stalin, quindi tra l'Urss e una Germania che stava conquistando l'intera Europa. Infine, alla guerra si arriva quando la diplomazia fallisce. E con fallimento della diplomazia non intendo gli ultimi passi compiuti prima dell'intervento, ma una conoscenza seria e approfondita dello stato delle popolazioni sotto i regimi totalitari con i quali non fare sante alleanze per ragioni politiche, come ha fatto Israele con l'Egitto di Mubarak o l'America con l'Arabia Saudita, e a suo tempo con i talebani nella guerra dell'Afganistan contro la Russia. La guerra diventa inevitabile quando non si agisce prima, come dimostrano le insurrezioni attuali nei paesi del Nord Africa, che nessuno aveva previsto per assenza di conoscenza, distrazione, quando non per interessi politici e economici, chiudendo bene gli occhi e forse baciando le mani. 
written by: Malfido time 15:22 | link | commenti
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sabato, 30 luglio 2011

Laboratori autobiografici

Titti e SilvestroPiccoli ulteriori abstracts dai miei appunti presi al corso di Elisabetta Biffi:

Dopo la nascita maturiamo l’esigenza di imparare a PARLARE, che è un’abilità che si apprende naturalmente. Lo scrivere di per sé richiede abilità tecniche –anche integrate-, perciò è uno strumento utile per pensare.

Il sé autobiografico ha un’età: si forma intorno ai tre anni. Il bambino inizia ad attribuire a sé i propri ricordi. E’ anche sempre possibile fare nostri i ricordi di altri. Dal punto di vista autobiografico ciò non fa differenza, perché quei ricordi costituiscono verità per me.

La scrittura autobiografica, potrebbe essere un tema personale, un diario o, come piace a me, la registrazione pressochè diretta di esperienze –brevi messaggi trascritti, appunti raccolti ecc.- non sono l’autobiografia, che consiste in un prodotto finito e reso organico da un sistema ordinativo, cronologico o tematico ecc.

Numi tutelari dell’autobiografia:

Montaigne, Saggi
Lettore questo è un libro sincero. Esso ti avverte fin dall’inizio che con esso io non mi sono proposto alcun fine se non personale e privato

Rousseau, Confessioni
Mi accingo a un’impresa che non conosce esempi e che non conoscerà imitatori. Voglio mostrare ai miei simili un uomo in tutta la verità della propria natura, e quell’uomo sono io.

Jerome Bruner:
Uno dovrebbe almeno credo terminare la propria autobiografia cercando di delineare che cosa intende per “se stesso”. In effetti è un’impresa disperata, perché nel momento in cui ci si mette al problema appare chiaro che i confini della personalità si dileguano come neve al sole.

La memoria autobiografica è fatta di:
  • rievocare: ritrovamento sensoriale (gusto, sapore)
  • ricordare: rappresentazione, in termini di rievocazione di che cosa è successo.
  • rimembrare: ricostruzione del perché il ricordo è significativo
Freud:
  • Il principio della rimozione si basa sul fatto che se ricordassimo tutto impazziremmo, o moriremmo.
  • La memoria non è un archivio: ogni volta che ricordiamo ricostruiamo da capo
  • Da dove arrivano le storie se non dalla propria vita?
  • L’unica cosa certa di cui non si può avere ricordo è la nascita, ma della nascita possiamo avere memoria (delle sensazioni vissute)
  • Il Dejà Vu è qualcosa che non si ricorda ma di cui si ha memoria.
Esercizi di scrittura autobiografica NON ANDREBBERO VALUTATI:
  • Sono condivisioni, gratuità, non sono cose dovute.
  • Tutte le scritture autobiografiche hanno un destinatario, più o meno latente, che non è l’insegnante che corregge.
I bambini non sanno trattenere il dolore, e non è facile fare pace con un pezzo di dolore.

Oliver Sacks in Demetrio, D., Album di famiglia 2002:

“E’ necessario capire quali sono le nostre origini, tornare all’inizio della nostra vita, analizzare tutti gli influssi che ci hanno formato, le persone che sono state importanti per noi, questo ritorno è fondamentale per capire la forma di questo nostro viaggio sulla terra.”

“I bambini sanno già imparare. Il come si impara non è la scuola ad insegnarlo per prima. Imparare a volte non è aggiungere cose nuove, ma andare avanti con quello che si ha”.

Demetrio, Didattica interculturale:

Ragioniamo per pre-giudizi: pensiamo che ciascuno arrivi con la propria storia.

RICONOSCI IL TUO PREGIUDIZIO E SOSPENDI IL GIUDIZIO:

Che cos’è l’altro? Ciò che non sono io. Mi devo conoscere bene. Devo sapere in base a quali immagini io ragiono.

Ciò che si colloca nel mezzo tra 2 o più individui è l’incontro, bisogna stare lì dove l’incontro accade, e lasciarsi toccare.

Dunque se il lì corrisponde alla biografia dell’altro?

L’altro è uno straniero a prescindere. Ognuno per di più è straniero a se stesso, quando si vuole analizzare da sé.

Che cos’è la norma? E’ il contesto in cui siamo cresciuti.

Pensare che dobbiamo accettare obbligatoriamente l’altro non ci aiuta.

Husserl, Heidegger, fenomenologia: quello che conta è l’esperienza dei fenomeni, il mondo è la percezione che ognuno ha del mondo.

L’incontro esiste dove si riconosce la legittimità dell’esperienza dell’altro. Non abbiamo bisogno di giustificare/dare un senso a quello che vediamo.

L’autobiografia è una SOSPENSIONE DI GIUDIZIO. L’autobiografia ci dice che non siamo solo qui per insegnare. L’approccio autobiografico ci ricorda che siamo educatori: l’incontro con me è un’esperienza educativa. Quello che accomuna tutti gli alunni della mia classe è che hanno me come insegnante. Non mi aspetto che ci sia una norma. Non mi aspetto che non ci siano differenze.

L’unica cosa che un insegnante può e deve preparare è SE STESSO, per gestire le cose in base a ciò che i ragazzi portano. Siamo sicuri che ascoltarsi a vicenda non sia niente?
  • guardare quello che c’è
  • lavorare con quello che si ha
  • conoscersi bene
Il laboratorio autobiografico deve dare delle vie di fuga: perché l’altro possa scegliere se il momento è quello giusto, se sono giuste le persone che ha intorno o se vado bene io come guida.

Qualsiasi incontro ha bisogno di una relazione: una buona cosa è raccontare di noi.

I miti e le fiabe sono tipi di narrazione che offrono vie di fuga: si lavora sulle fiabe per lavorare sulle differenze culturali. Le fiabe servono per raccontarsi. Sono versioni “locali” dei miti, narrazioni archetipe.

Siamo tutti soggetti narranti, il cui ciclo della vita prevede inizio, svolgimento e fine.

Esistono spunti e suggestioni, non strumenti. Esiste una metodologia, ma nessun sistema vale senza un orizzonte di senso.

I ragazzi che fanno più fatica a scrivere non sono quelli disabituati a leggere, ma quelli che non sanno a raccontare. Il racconto serve sempre perché è uno strumento di relazione.

I ragazzi di adesso sono abituati a stare nella distanza, scrivono di tutto ma hanno perso l’abitudine di raccontare. Socrate stava dentro la relazione, faceva domande, non dava risposte.

Nelle relazioni di oggi, nelle quali si comunica ad esempio via messaggi, la sincronicità è un disturbo: scrivo io mentre scrivi tu. Non si aspetta più che l’altro parli, ci si parla sopra, senza aspettare. Non si è più educati al TEMPO della relazione.

Come nei quadri di Magritte dove l’uovo è piccione, la scrittura rappresenta la realtà, ed allo stesso tempo realizza ciò che rappresenta.
Gli studenti devono sentirsi dentro un percorso. Noi insegnanti a volte dimentichiamo che:
  • non si parte mai da zero
  • non si sa come continueranno
  • anche noi facciamo parte della storia 
written by: Malfido time 15:48 | link | commenti
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giovedì, 28 luglio 2011

Autobiografia: Demetrio

munchPer una circostanza che dev’essere una coincidenza sincronistica, ho a casa da alcuni anni, senza averlo prima d’ora mai letto, un volumetto dell’ASL che raccoglie gli atti di un Programma di Riabilitazione espressiva per le ospiti della Residenza Sanitaria Assistenziale di Codogno (ex ospedale psichiatrico) svoltosi nel 2000.
Il titolo di questo progetto, approdato, tra l’altro, ad una mostra di circa 50 acrilici su carta e su tela, esposti all’Archivio storico di Lodi, è stato “La creatività come luogo dell’identità”.
Tra i contributi che hanno permesso di iniziare questo percorso, radunati in volume insieme al catalogo delle opere, c’è una relazione di Duccio Demetrio sul racconto autobiografico.
Ho rischiato d’incontrare il professor Demetrio ad un corso di aggiornamento in cui mi sono imbattuta nel gennaio scorso, non appena ho cambiato scuola. Il nostro corso di aggiornamento riguardava il Racconto autobiografico di seconda generazione, ma ad esso poi Demetrio non prese parte per motivi di salute.
Riprendo in mano gli appunti di quel corso, e riesco a leggere l’intervento di Demetrio sapendo già per quante ragioni saper parlare di sé è una cosa buona: per l’entusiasmo di Maria Teresa, che mi raccontò di Demetrio mentre allo Smeraldo aspettavamo Corrado Guzzanti, dopo l’incontro con Grazia e Laura, colleghe più esperte e consapevoli del metodo, pronte a metterlo in pratica con le studentesse di una quinta liceo delle scienze sociali che sperimentavano i tentativi di avvicinamento alle storie dei detenuti ospiti del carcere di Via Cagnola, e grazie alla guida e ai suggerimenti della dottoressa Elisabetta Biffi, docente di Teoria e pratica della narrazione e stretta collaboratrice di Demetrio,
Filosofia dell’educazione, memoria autobiografica, didattica interculturale, fenomenologia, pedagogia dell’esempio, i numerosi romanzi di formazione letti e ancora da leggere: tutto questo c’entra con me, e, ancora una volta, col mio essere a scuola.
Demetrio è un pedagogista che si occupa di una materia interessantissima: l’educazione degli adulti. Si occupa di esplorare le dimensioni, che sono innumerevoli, di puerilità: cioè di infanzia nella condizione adulta e anziana.
“Io credo che, dal punto di vista esistenziale, dentro ciascuno di noi, indipendentemente dalle fasi e dai passaggi della vita, resti e sia, non un tratto patologico ma quanto mai creativo e fecondo, un’inevitabile relazione con l’infanzia o con l’infante: il bambino che siamo stati e che perdura nel corso della nostra esistenza e ci richiama ad alcuni momenti di trasgressione, o d’irresponsabilità,come di solito si crede, ma che ci richiama alla necessità della nostra vita matura a mantenere gli aspetti più significativi dell’infanzia che sono il bisogno di esplorare, scoprire, d’imparare, di capire, che sono tratti d’immaturità che, lungi dall’essere, come è stato fatto per lunghi tempi, stigmatizzati, a mio parere vanno osservati, valorizzati e ritenuti nella nostra vita una presenza quanto mai fertile”.
 “Cerco, quindi, i romanzi, le storie di formazione, vale a dire gli eventi che hanno consentito i passaggi dalla prima giovinezza all’età adulta, i percorsi d’iniziazione che ciascuno di noi segue e che possono essere diversi dai percorsi d’iniziazione che può aver seguito il giovane Rousseau o Goethe, ma che sono, in fondo, gli stessi: perché i passaggi della vita sono ciò che noi chiamiamo la nostra formazione, della quale noi andiamo molto gelosi e orgogliosi o, talvolta, questa formazione continua ad inquietarci per tutta la nostra vita. Tutto ciò è esperienza che si incontra con alcune questioni esistenziali inevitabili che sono un po’ le nostre forche caudine oppure le occasioni straordinarie che ciascuno di noi vive e dalle quali può iniziare a raccontare se stesso, a costruire la propria vita: sono le esperienze d’amore, le esperienze affettive, le esperienze dell’impegno, della trasgressione, le esperienze del dolore, della sofferenza”.
I pedagogisti della memoria  non giudicano, non valutano, non interpretano le storie di vita, ma le restituiscono ai narratori, fornendo ancora maggiori stimoli, affinchè le storie si amplino diventando sempre più complesse. Tutte le storie manifestano torsioni, problemi, difficoltà. Tutte le storie verificano se il tragitto formativo dei loro protagonisti  è ancora in corso, oppure se non si è concluso o se si è arrestato.
Demetrio cita il maestro Proust: “Io capivo che il libro essenziale, il solo libro vero non deve essere inventato, bensì, visto che esiste già in ciascuno di noi, tradotto”. E ancora: “Solo con l’arte possiamo uscire da noi stessi, grazie all’arte anziché vedere un solo mondo, il nostro, lo vediamo moltiplicarsi”.
Il processo psicologico di costruzione di una scrittura autobiografica fa sì che lo scrittore o la scrittrice in quel momento inventi un mondo diverso. “L’aspetto quasi terapeutico e curativo della scrittura in sé consiste proprio in questo procedimento narrativo di sdoppiamento” . “La ricerca pedagogica vuole vedere come ci siamo organizzati la vita  e come abbiamo descritto e tradotto”.
Lo schema autobiografico teorizzato dal francese Denis prevedeva un ordine rigorosamente temporale, sviluppato in infanzia, adolescenza, vecchiaia. Ma le condizioni non sono soltanto quelle dettate dal tempo della storia, tutto diventa tempo personale, compreso quello dei nostri ritmi interiori, accompagnati magari da nessuna esperienza esteriore degna di nota.
Molti sono spinti a scrivere di sé mossi dal ricordo di un genitore o di un parente il quale scriveva delle memorie o un diario: scriviamo le nostre memorie anche perché qualcuno ci ha segnalato l’interesse biografico nei nostri confronti, come Rousseau che cita la figura di suo padre che lo educava alla lettura, alla narrazione, alla conservazione dei ricordi.
Le forme dell’oblio indicano che una cattiva memoria è quella che ci condanna ad un presente senza passato e senza alcuna prospettiva (e qui aver studiato W. G. Sebald è proprio un fatto da raccontare nel mio romanzo di formazione…). L’autobiografia ha bisogno di fatti, e di descrizioni riportate con precisione. Ma poi: l’autobiografia, fatto interessantissimo, deve raccontare la verità oppure no?
Nessuna autobiografia può aspirare alla verità. Ciascuno di noi tende a camuffare, per ragioni diverse, la propria storia, per proteggere la propria privacy. Comunque l’autobiografia non può assurgere alla funzione di verità narrativa. Innanzitutto la verità narrativa non esiste perché la narrazione è già invenzione, perciò siamo spinti a vivere del racconto che manipola i fatti e gli eventi per restituirli. “Non la verità cerca l’autobiografia ma l’autobiografia ha comunque l’onere della veridicità”.
Ogni autobiografia deve trattenere in sé qualcosa di enigmatico: “che senso ha avuto per il soggetto che l’ha scritta, che ha voluto rappresentarla?”
L’autobiografia non può dare risposte definitive. “Il destino non lo comprendiamo retrospettivamente, non lo dobbiamo guardare nelle stelle. Retrospettivamente casomai cerchiamo di capire quali sono le trame che ci hanno condotto ad essere ciò che poi siamo divenuti. L’autobiografia mette in moto questa ricerca che io chiamo “io tessitore”. Ho difficoltà ad utilizzare la parola io, tanto più che la parola io evoca declinazioni, aspetti di carattere razionale, l’ego che racconta è l’ego che si presenta come sicuro della propria testimonianza. Io cerco di usare il concetto di “io tessitore” perché penso che la nostra identità si palesi solo nel momento in cui noi la raccontiamo o quando veniamo raccontati dagli altri, sono queste le due condizioni. Noi abbiamo tanti io […] cambiamo tanti io nel corso della vita, abbiamo degli io paralleli, siamo contemporaneamente più identità, più storia, a seconda delle circostanze, delle esigenze, siamo dei mutanti continui, ma quando siamo veramente noi stessi? Siamo veramente noi stessi quando ci serviamo dell’io tessitore, quando ricostruiamo la nostra storia, quando siamo mossi da un impulso narrativo e discorsivo”.

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