martedì 10 gennaio 2012

martedì, 16 agosto 2011

Decisioni

studioloNon esiste alcun modo di stabilire quale decisione sia la migliore, perché non esiste alcun termine di paragone. L’uomo vive ogni cosa subito per la prima volta, senza preparazioni. Come un attore che entra in scena senza aver mai provato. Ma che valore può avere la vita se la prima prova è già la vita stessa? Per questo la vita somiglia sempre a uno schizzo. Ma nemmeno “schizzo” è la parola giusta, perché uno schizzo è sempre l’abbozzo di qualcosa, la preparazione di un quadro, mentre lo schizzo che è la nostra vita è uno schizzo di nulla, un abbozzo senza quadro.
“Einmal ist keinmal”.  Tomáš ripete tra sé il proverbio tedesco. Quello che avviene soltanto una volta è come se non fosse mai avvenuto. Se l’uomo può vivere solo una vita, è come se non vivesse affatto.
A pagina 16 de “L’insostenibile leggerezza dell’essere” si mette in dubbio la stabilità di ogni possibile decisione, che poggia sul presupposto che la vita non è una bozza che avrà una edizione riveduta, ma piuttosto un assaggio che è già il pasto completo, uno show senza prove e riprove.
In italiano decidere viene dal verbo latino caedĕre, tagliare. Il dramma delle scelte non è soltanto selezionare un’eventualità, ma soprattutto escludere, per effetto di quella selezione, le altre possibilità.
In tedesco Entscheidung contiene al pari la radice che significa dividere, distinguere. Una decisione in tedesco è qualcosa che ci viene incontro, alla Barthes: si dice eine Entscheidung treffen , incontrare; se la metafora del percorso indica di certo riflessione, sbuca anche un imponderabile elemento di casualità.
Fabbri della propria fortuna sono gli inglesi per i quali si usa make a decision, fare o fabbricare. La decisione è qualcosa che esce dalle proprie mani, come un oggetto plastico. 

Il francese invece ripristina l’idea che la decisione si prenda, che dunque talvolta la si afferri –per intendere con forza esiste anche l’espressione avverbiale con decisione-, o la si pigli al volo, come il più famoso autobus o treno della vita. 
 
written by: Malfido time 10:00 | link | commenti
sections: 11- sfide, 14- letteratura arte opinioni
lunedì, 15 agosto 2011
Sono i giorni dell’Ascensione, quando il giovane studente Anselmo, varcando la porta nera, a Dresda, travolge una vecchia e il suo cesto di mele. Non potrà prendere parte ai festeggiamenti, perché la vecchia strega, che non può più vendere le mele, gli porterà via i soldi, oltre che lanciargli una stana maledizione. Finisce dunque sotto un sambuco a riempirsi di nostalgia per un paio di occhi azzurri e una voce che lo chiama con amore, sovrapposti all’immagine mitica e simbolica di un serpente verdeoro.

Più avanti, una veglia del testo comincia così (zur Erinnerung des Jahres 2001):
Ora mi sia concesso di domandare direttamente a te, lettore benevolo, se nella tua vita non ti sia mai accaduto di attraversare ore, giornate, forse settimane intere, in cui tutte le tue attività consuete ti riempivano di tormentoso scontento; in cui tutto ciò che abitualmente consideravi valido e importante ti sembrava invece insulso e spregevole?… Allora non sapevi più che cosa fare né da che parte voltarti e provavi l’oscura sensazione che in qualche posto, in un tempo imprecisato, dovesse avverarsi un tuo desiderio, alto oltre ogni limite di umana gioia, un desiderio che la tua mente, simile a un bimbo severamente sorvegliato non osava neppure esprimere. Ovunque tu fossi o andassi, quella nostalgia di un qualcosa d’ignoto ti avvolgeva, come un vaporoso sogno di immagini trasparenti, pronte a perdere i contorni se appena un po’ più attentamente osservate, rendendoti insensibile a tutto ciò che ti circondava. Ti trascinavi intorno con lo sguardo annebbiato, come un innamorato senza speranza, e tutto ciò che vedevi fare dalle farraginose e variopinte moltitudini umane non ti procurava più né dolore né gioia, come se già non appartenessi più a questo mondo. 
Ernst Theodor Amadeus Hoffmann- Der goldne Topf 

Klimt__Wasserschlangen_II 
written by: Malfido time 10:00 | link | commenti
sections: 14- letteratura arte opinioni
venerdì, 12 agosto 2011

Agosto a Milano

Milano1D’estate molto spesso le pagine culturali dei giornali hanno spazio per raccontare gli scrittori e gli artisti, facendo grandi excursus tematici, oppure ripercorrendone la biografia. Circa 18 mesi fa ho messo da parte un testo raccolto da Michela Proietti e pubblicato su una rivista online, in cui Alda Merini racconta di come ha sempre trascorso agosto a Milano.
 Il poeta è sempre in vacanza. Ed è contro le vacanze. Per questo, anche d'estate rimane in città. Alle ferie d'agosto preferisce le passeggiate languide lungo i canali. Piuttosto che in un confortevole albergo ama riposarsi nel disordine di casa sua. Le vacanze le trascorro da sempre nella mia casa sui Navigli, rimpiangendo Patty Pravo e ascoltando «Mille lire al mese». In quale posto potrei stare meglio che qui? Tra queste mura sono nati i miei figli e le mie poesie. Sono un'eremita nata, la casa è il mio rifugio. Ho sempre sognato di vedere un giorno, attaccata fuori dalla porta, una targhetta con su scritto: «Qui è nata e vissuta Alda Merini». Sarei stata più felice solo se a questa casa avessero lasciato la vecchia muffa, le pareti scrostate, il suo passato. Invece anche qui hanno passato la vernice nuova e i vicini di un tempo non ci sono più. Ora ho una casa tutta «leccata», senza raucedini. Intorno a me neanche un colpo di tosse catarrosa, solo giovani belli e intelligenti. Neanche un cretino. D' estate, poi, tutti via. A farmi compagnia rimangono i preti giovani e bellissimi che passano tutti i giorni a trovarmi. Mi regalano felicità e impulsi creativi, con il caldo l' ispirazione si affievolisce. Esco di rado, per andare al Duomo o davanti al Castello Sforzesco. Rimango lì per ore e ore. Mi immedesimo in Pia De' Tolomei, la suggestione è grandissima. Le trattorie mi annoiano oramai, si mangia pesante. Le ho girate tutte. Ho cenato con piatti di gnocchi, di risotti, di ossibuchi con polenta. Ora non ne ho più fame. Sono un cuor contento, mi basta stare qui con dieci ventilatori a guardare i miei Navigli. Il mare lo vedo in televisione e mi piace molto. Non so nuotare, mi sarebbe piaciuto imparare. Alle spiagge assolate ho sempre preferito la montagna. Ho fatto qualche scarpinata in Val d' Aosta, sono una provetta scalatrice. Ma ogni volta che sono partita ho sognato la mia città. E' bellissimo tornare a Milano, di notte. Si potrebbe lasciarla per sempre solo per andare in Paradiso. Ma forse desidererei, anche da lì, la mia casa.
mercoledì, 10 agosto 2011

Una bella andatura

Copia di nikon07 058Sulla rivista online Doppio Zero (www.doppiozero.com) vari contributi stanno sviluppando il tema del camminare, ricco, interessante e molto adatto alla stagione.

Stamattina Chiodo Fisso, su Radio 3, ospitava la testimonianza di un grafico di Catania che da anni viaggia in bicicletta, in Sudamerica, in Africa, in Alaska, oltre che da noi. La sua esperienza e le sue parole illustravano come nel viaggio in bici, e, io credo, anche a piedi,  l'emozione non sia legata solo alla vista, come accade ai turisti i pullman, ad esempio, ma in uguale misura alla fatica, al caldo, al freddo, ai ripensamenti, agli odori, alla fame, alla pazienza e agli itinerari scelti e conquistati.

Il coinvolgimento molto più profondo e proprio di tutti i sensi e di tutte le sfere rende quel tempo vissuto indimenticabile.

Il testo di Caterina Bonvicini su Doppio Zero, verso la fine, racconta romanticamente che cos'è una bella andatura: due persone che avanzano insieme, a tratti anche in silenzio, magari uno orientato alla meta e l'altro perso nella strada.

A me piace chi viene a piedi con me, e anche in bicicletta. In questo la curiosità umana significa molto di più della consueta metafora intellettuale sul cammino.
In attesa di leggere di più sull'argomento riporto alcuni estratti dall'articolo di Caterina Bonvicini:


Fino a poco tempo fa, collegavo l’atto di camminare al pensiero e alla scrittura. Del resto, non c’è movimento umano più intellettuale, e tutta la letteratura intorno a questo tema lo dimostra. Il tuo passo rivela il tipo di curiosità che hai per il mondo, ai tuoi piedi non puoi mentire. Io, per esempio, sono un flâneur, anzi una flâneuse, e mi riconosco in una precisa tradizione. Non sono ambiziosa, le mete non mi interessano, preferisco perdermi per arrivare al dunque, scoprire una strada nuova per caso, distrarmi per emozionare la mia attenzione.
Ma ultimamente mi sono accorta che questa metafora si può allargare. Non è mica necessario viverla in termini così solitari. Camminare insieme, per esempio, è un dialogo. Come ogni dialogo muto, come ogni dialogo puramente fisico, ti mette di fronte a una verità anche quando non vuoi. Se ci fai caso, il tuo modo di camminare insieme a qualcuno dice tutto sulla relazione che hai con l’altro. C’è chi è troppo nevrotico e tende a stare sempre qualche metro davanti a te, anche se tu gli corri dietro. Chi si stanca e si ferma e si trascina e, tenendoti sotto braccio, ti frena. Chi si appoggia, magari senza accorgersene. Chi ti strattona sempre in qua e in là, perché non sa andare dritto. E c’è chi ha il tuo stesso passo.
Quando riconosci un tuo simile camminando con lui [...] [è] un piccolo corto circuito che ha il valore di un’epifania: forse hai capito qualcosa in più sul rapporto. A volte il ritmo comune è così naturale che ti dimentichi che stai camminando con qualcuno. Ti viene in mente solo quando ti serve una mano per tirare fuori qualcosa dalla borsa [...]
La direzione non conta e nemmeno lo spirito del camminare. Tu puoi essere un flâneur e l’altro può essere uno che ha bisogno di avere una meta. Se il ritmo funziona, può cominciare anche lo scambio. Una volta si punta un traguardo e quella dopo ci si perde insieme, perché no.
Dopotutto, per costruire una bella andatura di coppia bisogna attraversare terreni diversi, e neanche tanto metaforicamente: infilare i piedi nella sabbia, sperimentare sentieri tortuosi di montagna, sgambettare veloci al freddo per raggiungere un ristorante o camminare pigramente per il centro di una città per far passare il pomeriggio. Saltare pozzanghere, sudare sotto la calura estiva, sostenersi quando si scivola, scendere dandosi il braccio almeno un milione di scale. Se non ti annoi a camminare con qualcuno in silenzio, hai davvero qualcosa da dire a quella persona.
Un caro amico che viene dall’Iran un giorno mi ha insegnato un proverbio persiano. Dice: «Per conoscere realmente qualcuno ci devi mangiare, dormire e viaggiare insieme». Io aggiungerei «camminare».
 
written by: Malfido time 14:39 | link | commenti (1)
sections: 06-paesi, 14- letteratura arte opinioni
giovedì, 04 agosto 2011
filmQualche giorno fa su Sky hanno dato il film tratto dal romanzo di Milan Kundera “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, interpretato da due giovani e già bravissimi Daniel Day-Lewis e Juliette Binoche.
Il libro in casa c’è, siccome il film ha suscitato un po’ di domande, stamattina l’ho aperto. I primi paragrafi servono a delineare il mistero e l’ambiguità dell’opposizione pesantezza-leggerezza. La vita è pesante oppure leggera?
Secondo Nietzsche il principio dell’eterno ritorno del sempre uguale è il pensiero che un giorno ogni cosa si ripeterà così come l’abbiamo già vissuta.  
L’aforisma N. 341 de “La gaia scienza” dice che nella più solitaria delle nostre solitudini potrebbe un giorno o una notte farsi avanti un demone che ci dica che la nostra vita, così come la viviamo e l’abbiamo vissuta, dovremo viverla ancora innumerevoli volte: ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro dovrà fare ritorno a noi nella medesima sequenza e non ci sarà mai niente di nuovo, “così pure questo ragno e questo lume di luna tra gli alberi”.
Sapere una cosa simile ci stritolerebbe, anche se avessimo vissuto una volta un attimo straordinario e impagabile.
Questo significa che dobbiamo imparare a dimenticare, il passato talvolta appesantisce il nostro passo. Per ogni agire ci vuole oblio, come per ogni essere vivente ci vogliono luce e oscurità:  “Chi non sa sedere sulla soglia dell’attimo dimenticando tutte le cose passate, chi non è capace di star ritto su un punto senza vertigini, non saprà mai che cosa sia la felicità e, ancor peggio, non farà mai alcunché che renda felici gli altri”.
Il mito dell’eterno ritorno, secondo Milan Kundera, serve a negare che il concetto di eternità si applichi all’esistenza. Il mito di Nietzsche afferma in realtà che la vita scompare una volta per sempre, non ritorna. Da ciò si origina la probabile leggerezza, la probabile inconsistenza, della vita. Qualità davvero difficili da sostenere, come Kundera ci racconta nel suo romanzo.
Nonostante ciò, la coscienza che ciò che è già stato non può tornare uguale è una prospettiva con delle implicazioni sia storiografiche che morali.
“Se la Rivoluzione francese dovesse ripetersi all’infinito, la storiografia francese sarebbe meno orgogliosa di Robespierre. Dal momento, però, che parla di qualcosa che non ritorna, gli anni di sangue si sono trasformati in semplici parole, in teorie, in discussioni, sono diventati più leggeri delle piume, non incutono paura. C’è un’enorme differenza tra un Robespierre che si è presentato una sola volta nella storia e un Robespierre che torna eternamente a tagliare la testa ai francesi.
Diciamo quindi che l’idea dell’eterno ritorno indica una prospettiva dalla quale le cose appaiono in maniera diversa da come noi le conosciamo: appaiono prive della circostanza attenuante della loro fugacità. Questa circostanza attenuante ci impedisce infatti di pronunciare un qualsiasi verdetto. Si può condannare ciò che è effimero? La luce rossastra del tramonto illumina ogni cosa con il fascino della nostalgia: anche la ghigliottina.
Or non è molto, mi sono sorpreso a provare una sensazione incredibile: stavo sfogliando un libro su Hitler e mi sono commosso alla vista di alcune sue fotografie: mi ricordavano la mia infanzia; io l’ho vissuta durante la guerra; parecchi miei familiari hanno trovato la morte nei campi di concentramento hitleriani; ma che cos’era la loro morte davanti a una fotografia di Hitler che mi ricordava un periodo scomparso della mia vita, un periodo che non sarebbe più tornato?
Questa riconciliazione con Hitler tradisce la profonda perversione morale che appartiene a un mondo fondato essenzialmente sull’inesistenza del ritorno, perché in un mondo simile tutto è già perdonato e quindi tutto è cinicamente permesso”. (pp.11-12)

Ecco poi, con le parole di Kundera, spiegato il perché, mentre ambiamo alla leggerezza, scegliamo, di solito, la pesantezza.

“Il fardello più pesante ci opprime, ci piega, ci schiaccia al suolo. Ma […] il fardello più pesante è […] allo stesso tempo l’immagine del più intenso compimento vitale. Quanto più il fardello è pesante, tanto più la nostra vita è vicina alla terra, tanto più è reale e autentica.
Al contrario, l’assenza assoluta di un fardello fa sì che l’uomo diventi più leggero dell’aria, prenda il volo verso l’alto, si allontani dalla terra, dall’essere terreno, diventi solo a metà reale e i suoi movimenti siano tanto liberi quanto privi di significato.” (p.13) 
 
written by: Malfido time 13:06 | link | commenti
sections: 14- letteratura arte opinioni
martedì, 02 agosto 2011

Paesologia

Copia di nikon07 099Grazie a "Pagina Tre", la rassegna stampa delle 9 di Radio3, sono venuta a conoscenza dell'esistenza della rivista Doppio Zero, pubblicata sul Web all'indirizzo www.doppiozero.com.

Tra i dossier, ve n'è uno curato da Marco Belpoliti, che raggruppa contenuti sul tema "Unità e Disunità d'Italia". Leggendo il contributo segnalato stamattina via radio, Elogio dell'Italia disunita, ho saputo di Franco Arminio, cinquantenne poeta, regista e scrittore proveniente dall'Irpinia, che si definisce "Paesologo" e si occupa di un Blog de "Il Corriere del Mezzogiorno" che si chiama, per l'appunto, "Paesologia".

Nel poco tempo che oggi ho dedicato al web, ho colto un concetto ricorrente nella prosa di Franco Arminio: egli ama i paesi anche perchè ce l'ha con la valanga di narcisismo che ha travolto tutto:
Questo punto morto della postmodernità forse richiede di affidarsi a  comunità provvisorie per sfuggire ai pericoli dell’autismo corale o a nostalgie regressive di comunità basate su ripiegamenti localistici. Per comunità provvisorie intendo la costruzione di luoghi, reali più che virtuali, in cui le persone si incontrano esponendosi agli altri generosamente e cercando di fare delle cose insieme agli altri, azioni che possono essere di svago o di contestazione, di riflessione intellettuale o di produzione artistica, ma sempre con l’intenzione di tenere vivo un intreccio di umori e di gesti in cui sia riconoscibile allo stesso tempo la matrice individuale e la tensione corale. È  inutile arroventarsi, aggrovigliarsi. Bisogna distendersi, arrendersi al tempo che passa.
[more at:  www.paesologia.corrieredelmezzogiorno.corriere.it]

Mentre riflettiamo, ci serve mettere da parte l'articolo di Arminio segnalato stamane dalla rassegna stampa di Rai3, pubblicato, come dicevo, su doppiozero.

Volgendo il pensiero all'amico Rino, noi avremmo anche potuto intitolarlo "Ad esempio a me piace il Sud".

E poi, non appena ho terminato di avere nostalgia per i paesi del sud che non ho ancora visto, serve sottolineare le parti che mi restituiscono maggiormente l'esperienza di vivere nel mio paese di pianura.
La cosa più interessante dell'Italia è la sua disunità.
Sono i salti, le crepe, i vuoti che ancora allignano tra un luogo e l'altro. In certe zone il mondo sembra un panno di biliardo e anche dove è scosso e scosceso tutto è comunque in qualche modo omogeneo. Dell'Italia amo questa residua densità del suo passato che ti viene incontro all'improvviso con una faccia, con un muro. L'Italia del sud consente più facilmente di abitare questi anfratti, questi rilievi fuori scala rispetto alla livella della modernità.
Il mio paese, spezzato in due come un verme, mi dà ogni giorno questa dose salutare di disunità. Amo le cose sconnesse, amo le cose che si svolgono lontano dalle premesse con cui iniziano.
Oggi per voler bene all'Italia bisogna trovare i luoghi in cui è diversa e averne cura.
Non avere la foga di metterli sotto gli occhi dei giornali e della televisione. Noi abbiamo bisogno di luoghi in cui la lingua non è imbellettata, in cui nessuno scalcia per passare avanti, riposa, luoghi attraversati dalla poesia e dalla morte, in cui nessuno si fa il nido, ma tutti inciampano dalla mattina alla sera, luoghi in cui un uomo ha lo stesso valore di una damigiana sfondata e si dà spazio e valore ai ragni, alle chiavi arrugginite, ai cani.
L'Italia io la sogno sempre più disunita, sempre più lontana nelle sue parti e dentro ogni parte sogno voragini, frane, smottamenti, un inferno di cose che non coincidono, un inferno di cose che non rimano. Mi piace vivere in un paese spaiato, un paese che somiglia a un calzino rotto appeso a un ramo in un giorno di vento. Non mi piace la manfrina dei discorsi che gli italiani fanno sull'Italia: le cose che non vanno, gli imbrogli, le furbizie che sono sempre degli altri. Mi piace un'Italia felicemente sconclusionata, mai compita, sempre un po’ indisciplinata ai doveri dell'epoca. Una nazione che si rompe felicemente, che si distrae dai suoi impegni, che disattende ogni promessa. Forse per questo dell'Italia mi piace più il sud, ma solo quando non si dà arie che non sono sue, solo quando il sud pensa se stesso, non si fa pensare da altri, quando il sud si dispone a giocare con l'assurdità della vita, con la sua instabilità costitutiva.
Una nazione non deve raccogliere, non deve proteggere, deve essere un tetto rotto, una finestra che cigola, una nazione deve essere un pavimento sfondato. L'Italia che amo è quella che non sa niente di sé, che non si sente ricca né povera, che non si vanta e non si lamenta, un'Italia che appare a lampi su strade periferiche, un'Italia rimasta viva per sbaglio, per le amnesie della politica, per i mancamenti del progresso. Mi piace l'Italia che trovo all'inizio di certi paesi, un paese in pigiama o in pantofole, un paese che non si è lavato i denti, senza moine pubblicitarie, un paese indisposto e indisponibile. In una nazione del genere, in una nazione profondamente sconnessa e disunita è ancora bello viverci perché la vita tiene ancora un suo sapore, una dolcezza da consumare senza colpe in luoghi dismessi o abbandonati, oppure un rancore acido con cui lottare gettando nella mischia un dolore che non si compiace di se stesso e non si arrende.

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