lunedì 9 gennaio 2012

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E allo stesso tempo pensò anche da dove provenisse quel profondo sentimento di se stessa che per un attimo sentì affiorare di fronte al gesto perfetto e volitivo con il quale Greta puliva la macchia di cioccolata dalla guancia del suo bambino. Dal nulla, quel sentimento proveniva dal nulla, come il suo ricordo che non era un vero ricordo ma il ricordo di un racconto, e non era ancora un sentimento, era un'emozione e in fondo neppure emozione, erano solo immagini che la sua fantasia aveva costruito da bambina ascoltando ricordi altrui, ma di quel luogo remoto e immaginario si era poi dimenticata, e questo la stupì.

Antonio Tabucchi, Il tempo invecchia in fretta, p. 15

giovedì, 17 novembre 2011

Keep your coins: I want change

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Sotto questa bellissima figura in riposo, la sorella dell'artista Nella Marchesini, riassumo qualcosa dal nuovo inserto domenicale de Il Corriere dedicato a lettura e cultura. A proposito di correttori a favore dei giovani, un articolo pone un discorso molto serio, oltre a riportare un’opera di street art piuttosto eloquente, dal titolo “Keep your coins: I want change”.
In Italia, e anche altrove, nel mondo, la maggioranza relativa degli elettori sono i cittadini sopra l’età media della pensione di anzianità. Difficile dunque pensare ad un politica che si occupi prima di tutto dei diritti dei giovani, o che dia spazio a idee nuove.
Ma a questo punto serve fare qualche riflessione. Le persone anziane hanno più interessi immediati che futuri. Chi è più giovane deve invece proiettare le proprie scelte nel tempo e cercare un equilibrio tra le generazioni . Chi ha figli da tutelare ha più motivi per fare scelte giuste e imparziali. Diciamo pure che trova anche più facilmente buone ragioni per fare sacrifici.
L’economista Padoa Schioppa, dice il Corriere, parlava di mark-to-market, un fenomeno della finanza e della politica dove il voto, la valutazione, di un’impresa o di una pratica di governo, si basa solo sul valore attuale di mercato di un business o di un affare di Stato: a quale prezzo possono essere venduti? Con governi che sempre più rischiano di non arrivare a scadenza legislativa, pare che il tutto si giochi su come essi possono “piazzare” le proprie proposte tra il pubblico, cioè tra gli elettori. Le decisioni competenti e valide soprattutto in un’ottica intemporale rischiano di condurre sempre più spesso a fatali cadute del consenso.
In tempi in cui la distribuzione di costi e benefici fra cittadini non è equilibrata, e in cui la democrazia è inceppata a causa della gerontocrazia, un correttivo adatto potrebbe essere il seguente: assegnare al voto di un ventenne, di un trentenne o di un genitore con figli piccoli un coefficiente in più, qualche decimale di voto in aggiunta, per dare più peso all’opinione di chi più a lungo sopporterà le conseguenze di qualunque decisione sul debito, sulle pensioni, sulle tasse e i sistemi di welfare.

mercoledì, 16 novembre 2011

Your kindness

metro 01Sempre a proposito di gentilezza, un articolo de Il Corriere di domenica ricordava a tutti che si stava festeggiando la giornata mondiale della gentilezza. Nulla di moralistico, o banalmente edificante: discutere il concetto di gentilezza, nel tempo che viviamo, illustra molti bisogni, anche abbastanza urgenti.
La cortesia sembra stia divenendo un tabù, un’attitudine non più adatta ai tempi. I noiosi, i fessi, si danno il tempo di essere gentili. Sono deboli di spirito. Sotto certi aspetti, forse pensano alcuni, sono dei falliti.
Io non ci credo, perché mi dicono che intanto Derek Winnicott, uno psicanalista inglese, disse che considerava la benevolenza e l’altruismo chiari sintomi di salute mentale.
Allora non stiamo tanto bene, ecco la verità.
Ma poi alcuni, come i volontari accorsi a Genova dopo l’inondazione della settimana scorsa, ci mostrano la strada giusta per riabilitarci: agire nel segno più puro della gentilezza, cioè generosamente e gratuitamente.
A volte però può capitare di sospettar dell’opaca generosità altrui: c’è chi compie soltanto gesti occasionali e auto gratificanti, quasi per un capriccio del comportamento. Ciò si avvicina all’ipocrisia e somiglia alla beneficienza di un giorno sì e cento no.
Abbiamo smesso di definire gentili le dame e i gentiluomini più sobri e misurati, per andare ad esprimere, col concetto di buona educazione, l’esatto opposto dell’aggressività.
Interessante è notare, in questo senso, quanto il garbo e la calma siano una barriera protettiva della propria vulnerabilità, un sistema precauzionale che, una volta automatizzato, da una parte ci preserva, nel linguaggio e nei modi, dall’essere arroganti o altezzosi, mentre dall’altra tutela il nostro prossimo dall’avere a che fare col peggio di noi stessi: la nostra gentilezza ci difende infatti anche dall’aggressività, dalla volgarità, dalla scorrettezza altrui.
La benevolenza non nega solo l’iracondia e la prepotenza, ma anche l’indifferenza. Il filosofo Norberto Bobbio scrisse l’elogio della mitezza per esaltare una qualità morale che coinvolge il rapporto con le altre persone. L’empatia è una virtù proprio perché può essere coltivata e affinata con impegno, sia dall’individuo che dalla società.
La gentilezza richiede una buona dose di umiltà e di comprensione per l’altro, ma anche, suggerisce il mite Bobbio, un’intransigente volontà di difesa della propria e altrui dignità.

martedì, 15 novembre 2011

Una e due

metro5Sabato ho visto la risposta di Umberto Galimberti ad una nuova domanda segreta su D-La Repubblica delle donne. L’interrogativo verteva sulle differenze tra uomo e donna, oppure, per dirla un po’ meglio, tra il maschile e il femminile.
Ho letto e ho pensato subito allo “svizzero” KRS, che un giorno, mentre ancora studiavamo, rispose a una domanda su di me che gli feci in confidenza, quasi sottovoce, colpita nei sentimenti da non so più quale circostanza. Mi disse, per essere preciso, che io faccio un uso molto femminile dell’intelligenza. Una settimana or sono, nella sconfinata tenerezza di un’amicizia adulta, il mio pianista preferito ha confermato che il mio affetto è pari alla mia intelligenza.
Gli amici che ho mi vogliono bene, e su questo ci posso contare, bontà mia.
E poi, al di là di questa premurosa benevolenza, da parte mia assolutamente reciproca, so che, se penso alle creature femminili di cui mi fido e che considero di più, di loro si può dire la stessa cosa. Nessuna donna gentile e onesta, per dirla con Dante, svilupperebbe mai la propria intelligenza ad eventuale discapito dell’amorevolezza, dell’attaccamento agli altri.
Mentre ripercorrevo le parole del professor Galimberti, poi ho anche afferrato che una poesia come Una e due di Dacia Maraini, recuperata in un'antologia di poetesse italiane pubblicata da Newton Compton, non avrebbe forse mai potuto esser elaborata da un uomo.
Dacia Maraini conduce un gioco dell'identità e della mutazione, sul fatto di essere una, ma anche due, tre o zero.
Come ogni donna, e come molti scrittori e artisti benché uomini, aggiungerebbe Galimberti, la poetessa romana si avvita e si perde in esperienze urgenti e quotidiane, ma anche in malinconiche lontananze, per poi ricostruirsi, e ricostituirsi, oltre gli eventi improbabili, gli scenari distratti, i sentimenti soffocati.
Di seguito il già citato intervento di sabato del professor Galimberti e la poesia segnalata.
[I]n attesa che le neuroscienze un giorno sappiano dirci qualcosa in proposito, mi pare di poter rilevare due fattori che ne evidenziano la diversità. 1. A differenza del modo maschile di pensare, che è fondamentalmente cartesiano, ossia logico-razionale, penso che quello femminile sia in un certo senso olistico, perché connette la dimensione razionale con quella irrazionale. Col linguaggio delle neuroscienze potremmo dire che la corteccia del cervello femminile dialoga con il cervello antico, sede delle emozioni, dei sentimenti, dei presentimenti e delle intuizioni, molto più di quanto accada nel cervello maschile. Questa combinazione ottima, che non circoscrive il pensiero alla sola razionalità, consente alla donna un miglior contatto e una miglior comprensione di tutto ciò che nella nostra vita non è leggibile con le sole regole della ragione. Il vantaggio non è di poco conto: è lo stesso vantaggio di cui godono i poeti e gli artisti, che intuiscono e presagiscono al di là di ciò che è afferrabile con gli strumenti della sola ragione. E questo perché poeti e artisti sanno parlare con la loro parte femminile, la sola capace di offrire intuizioni, metafore, simboli, ispirazioni. 2. La seconda differenza che io rilevo è che il maschio è "uno" e la donna è "due", non nel senso di "uno più uno", ma nel senso di "l'uno e l'altro". Per due è il suo corpo, anche se non genera, per due è la sua psiche, per cui in un certo senso potremmo dire che la donna è essenzialmente "relazione", e nella relazione trova la sua "identità", a differenza del maschio, che è un'identità che instaura relazioni. La cosa è particolarmente evidente nello scenario dell'amore, dove, senza relazione, la donna tendenzialmente non mette in gioco la propria sessualità. Se i maschi capissero questa differenza si relazionerebbero alle donne in un modo meno egoistico e strumentale. Se le donne si persuadessero di queste lo- ro qualità (che qui succintamente abbiamo individuato nel pensiero olistico e nella struttura relazionale) smetterebbero di imitare il modello maschile, autolimitando le loro potenzialità e castrando in un certo senso la loro natura, come vuole la cultura del nostro tempo che le invita a tali autolimitazioni.
Una e due
Io sono due
è chiaro ora
sono due più uno
meno uno e fanno due
che due volte sono
nata e due volte morta
due volte mi sono persa
forse una volta di più
perchè due e una sono tre
le volte che ho sbattuto
e una volta ho anche vomitato
ma erano forse due
dato che sono in quattro
a tirarmi per i piedi
mentre dormo con voce di drago
e una volta sola ho amato
ma saranno duecento le volte
che ho toccato l'allegria
però non duecento volte sono nata
perchè al centonovantanove
mi sono stufata ed ecco
dall'una al due mi sono scordata
e se una non fosse due sarebbe zero
ma l'una sono io e l'altra due
perciò prendimi come sono
di una due e di due una.

PS: Grazie a Paola Geranio per la meravigliosa figura femminile dipinta nel suo quadro.


PS

lunedì, 14 novembre 2011

Il centrocampista silenzioso

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Matteo Danasi, la nostra mezz'ala destra, aveva un pessimo padre e una voce inesistente.
Giacomo Danasi, detto Riace, era un uomo alto e forte, bellissimo, che non beveva, non fumava e non andava al bar.
Non aveva amici e non aveva neanche una moglie, perché la donna che teneva chiusa in casa era poco più di una serva.
Nessuno di noi l'aveva vista più di 5 o 6 volte in giro per il paese.
Giacomo Danasi, detto Riace, non aveva un lavoro.
Ne aveva tanti, sparsi qua e là, di ogni genere, e la sua occupazione principale era acciuffare suo figlio per fare completare a lui i lavoretti che lasciava a metà.
“C'è da potare una siepe? Oh, Riace è impegnato a imbiancare la villa del dottor Moreni ma non c'è problema, manda subito suo figlio Matteo.”
La vedova Resta doveva montare il videoregistratore? Riace stava raccogliendo le pesche, ma Matteo poteva benissimo uscire da scuola un'ora prima e, se la signora voleva, poteva mandarle anche sua moglie a pulire le camere.
In questo turbine di lavoretti, Matteo Danasi aveva conquistato il tempo per il pallone senza trattare, senza chiedere permessi e senza litigare.
Nei giorni di allenamento o il sabato della partita si nascondeva cosi bene e scappava cosi in fretta che il suo babbo non lo acciuffava quasi mai.
I conti li facevano poi la sera, a casa, dove non c'erano abbastanza rifugi in qui scomparire.

Giacomo Danasi era troppo vigliacco per venirlo a prendere di forza al campo sportivo.
Ci provò solo una volta, proprio quell'anno.
Fu durante l'allenamento del giovedì.
Quel sabato ci sarebbe stata la prima del campionato.
Riace entrò in campo senza dire una parola, e afferrò Danasi dal dietro uncinandolo per un orecchio mentre facevamo riscaldamento.
Lo stava trascinando verso gli spogliatogli quando il Mister gli mise una mano sulla spalla.
“Quando sono qua dentro “ gli spiegò indicando le righe del campo per tutta la loro lunghezza ”i ragazzi sono miei”.
Riace aveva una solo risposta per quel genere di frasi.
“Va' a cagare”disse.
Danasi guardava per terra, come se avesse perso qualcosa di importante nel erba.
Il Mister si voltò verso di noi, che gli fissavamo in mobili e ci ordinò di riprendere a correre intorno al campo.
“Anche te” disse a Matteo.
Suo padre gli ordinò di stare fermo.
“Immobile”aggiunse.
“Vai” ripeté il Mister .
Matteo si bloccò, e schizzò via, rifugiandosi in mezzo a noi che lo stavamo aspettando.
Riace e il Mister erano vicini al cerchio di metà campo.
“Adesso le do a te” disse Riace, puntandogli il dito tra gli occhi ”e stasera tocca a lui”.
Il Mister ci guardò passare a bordo campo , di corsa, la sua squadra di esordienti al completo, con Matteo al sicuro nel folto del gruppo.
Poi indicò con una occhiata il capanno di lamiera dietro le panchine, dove custodiva i palloni e gli attrezzi per fare le righe di gesso.
“Là c'è anche la mia doppietta” spiegò.
Riace lo squadrò, e alzando le spalle mosse un passo verso di noi, che stavamo correndo lì di fianco.
Ci stringemmo ancora di più intorno a Danasi.
Quando il Mister riprese a parlare lo fece con un tono talmente affranto che Riace si bloccò all'istante.
“Se torni qui dentro” disse con aria di grande rimpianto”te la scarico addosso”.
Riace ruotò su un piede come fosse la punta di un compasso, e se ne andò a lunghe falcate.
Solo quando arrivò alle panchine,del altre parte del campo, trovò il fiato per pastrocchiare qualche bestemmia.
Alla fine del allenamento, il Mister scese negli spogliatoi.
“Quando sei da questa parte del cancello, non ti farà mai niente” gli disse”se lo superi sei apposto. Fuori sono fatti tuoi. Mi dispiace“.
Usci con il suo passo lento,oscillante, come un re triste che governa su un regno tropo piccolo quando i problemi sono grandi e troppo vasto quando i problemi sono piccoli.
Danasi giocava con il numero otto.
Durante le partite sembrava scomparire, ma a fine gara era quello che più di ogni altro rimaneva impresso nella memoria degli allenatori avversari.
Era il primo a cui i giocatori onesti davano la mano, il primo su cui i più nervosi cercavano di vendicarsi.
Lasciava il segno senza dire una parola e si tirava fuori dagli impicci alla svelta, senza tante chiacchiere.
“Aveva una Toccata con il silenziatore” cercherò di spiegare un giorno ai miei figli.
Contro la Stella Azzurra, in quel campionato, fece un gol da centrocampo, colpendo al volo il rinvio del portiere.
Anche allora non si sentì niente.
Alzò le braccia un attimo, il tempo di un sorriso.
Anche quello era raro quanto la sua voce.


Da:
Cristiano Cavina
Un'ultima stagione da esordienti
pp.63-69

domenica, 13 novembre 2011

Calcio giovanile 3

adolescentiGli parlerò del dio del calcio e della magia che dispensa a chi ha abbastanza coraggio per credergli, inseguendoli in campi polverosi negli angoli dimenticati della terra, in un’ ultima stagione da esordienti […]
[…] non vedo l'ora di diventare vecchio. Non vedo l'ora di essere un vecchio uomo rinsecchito con la pelle macchiata, che non ha niente da fare, lontano mille chilometri da tutti i casini, gli intrallazzi e gli impicci della vita. Non vedo l'ora di non cercare più niente. A quel punto potrò sedermi sulla panchina che hanno sistemato nel cortile, appoggiare le mani al bastone da passeggio e metterci il mento sopra. Magari mi verranno in mente tutti i fallimenti, le bugie, le cose mirabili che tutti si aspettavano dovessi realizzare e non ho mai raggiunto, come l'ottimo all'esame di terza media. Mi verranno in mente un sacco di cose. La malinconia simulata con cui lasciavamo le ragazze e la rabbia artificiale che mi prendeva quando erano loro a sbarazzasi di me.

[…] Guardando i bambini giocare in un campetto di ghiaia penserò a quando ero alto come loro. Penserò ai miei amici, quelli che nel frattempo avrò perso per la strada e quelli che ancora non sarò riuscito ha togliermi di dosso. Lì vedrò mia madre a piangere, insieme a tutti gli altri parenti assiepati dietro la porta, che ci guardano sbigottiti ed euforici, perché qualcosa di decente alla fine si poteva cavare anche da noi. E poi, come una musica, arriveranno tutti i miei compagni di squadra.

C. Cavina, cit.

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