martedì 10 gennaio 2012

domenica, 20 marzo 2011
baia"Qui, presto, vieni, o glorioso Odisseo, grande vanto degli Achei,
ferma la nave, la nostra voce a sentire.
Nessuno mai si allontana di qui con la sua nave nera,
se prima non sente, suono di miele, dal labbro nostro la voce;
poi pieno di gioia riparte, e conoscendo più cose.

Odissea, Libro XII, citaz.

Domani inizia la primavera, ed ogni 21 marzo è considerato la giornata della poesia. Quest'anno penso al Canto delle Sirene nell'Odissea.

La seduzione della poesia sta nella perfezione del canto, nella sua capacità di sedurre l'ascoltatore lusingandolo e rafforzandolo nella sua opinione di sè. Contemporaneamente la poesia ha la facoltà di riattivare i sensi più sopiti, e di farci navigare nel vasto mare della conoscenza. Poi c'è dell'altro, sul tema della conoscenza secondo le sirene: nel rivolgersi ad Ulisse rimembrando le sue gesta di eroe, ci mostrano l'eterno legame tra la conoscenza ed il ricordo.

Le sirene sono responsabili di una sorta di perdita ed oblio dell'identità, cercano di convincere Ulisse a smettere di ritornare alla sua isola, alla sua gente, a se stesso.

Ma è pur vero che uno i suoi accidenti deve andarseli a cercare, o no?

Al pari le sirene sembrano elargitrici di una conoscenza e di una percettività che sole si possono avere tra gli elementi di un disastro, e per questo le navi naufragavano vicino alle coste della loro isola.

E' pur vero che le sirene sono duplici, donne-pesce, e fanno dunque riferimento ad ogni possibile dualità o ambiguità.

O anche ad ogni controsenso ed illusione, se posso sviluppare il concetto a modo mio: i pesci non cantano, anzi, per definizione, sono del tutto muti. I pesci che cantano, anzi, che ci incantano, non possono che essere una eco di ciò che abbiamo dentro.

Il fatto che Ulisse si faccia legare all'albero della nave per non rischiare la propria vita e quella del suo equipaggio, nel tentativo di raggiungere le sirene, secondo alcuni è segno di astuzia, secondo altri di codardia. Io che son brechtiana, più spesso propendo per la seconda ipotesi.

Perdere la faccia

vanelli
Questi volti realizzati con tecnica mista da Felice Vanelli esprimono la fratellanza attraverso i volti delle persone. Il volto di una persona è quasi sempre ciò che ci pemette di riconoscerla, e scorgere la sua espressione è quello che fa nascere in noi emozioni e sentimenti.

Qual è il criterio che decide la bellezza di un volto? Il fatto che appartenga a una persona che amo, che possa riportarmi a lei.

Oggi ho letto su D il contributo di un lettore che rifletteva sull'assenza di un' espressività reale sui visi di molte persone che vediamo. Il signore che scriveva dava la colpa ai ritocchi della chirurgia estetica, che tolgono dalle facce i segni del tempo vissuto, e delle espressioni che una persona ha sempre avuto. Se non abbiamo un'età, una storia, una biografia, che cosa rimane in noi di interessante?

Aveva ragione Billy Idol: Such a human waste your eyes without a face...
 

C'è anche di peggio, infatti: sembra che siamo abituati a tutto, invece non è affatto vero. Nell'immaginario collettivo c'è sempre meno spazio per la bruttezza, per l'imperfezione, e, soprattutto, per volti ed espressioni che dicano dolore, smarrimento.

Senza le naturali dimensioni del tempo e degli accidenti che possono benissimo solcarci il viso, anche sfigurandoci l'espressione, come susciteremo l'empatia dei nostri simili? La commozione, la pietà, la gioia, la sorpresa, affiorano dai volti della gente.

E poi mi viene in mente la lingua popolare dov'è normale associare le facce delle persone anche al muso di alcuni animali...

Invece viviamo sempre più in un mondo di gente mascherata e nascosta: dietro occhiali sovradimensionati e scurissimi, dietro trucchi pesanti, che si chiamano così proprio perchè richiamano la funzione della maschera nel teatro, che è la possibilità, all'occorrenza, di fingere una diversa identità.

Spesso mi domando se chi si rifà la faccia (penso anche alle proverbiali facce di tolla) si ricordi ancora del volto che aveva prima. Mi chiedo se sia come quando nei film si rinnega il proprio nome cambiando identità, e poi si trasale, in mezzo alla folla, convinti di esser stati chiamati alla vecchia maniera.
 
written by: Malfido time 00:52 | link | commenti
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venerdì, 18 marzo 2011
cris93
A proposito di top grade 1993, l'altro giorno su U-Tube ho rivisto Cristiano cantare "Dietro la porta". Nonostante tutto, non l'avevo mai fatto prima.
Molti se la ricordano, e molti credono abbia vinto lei il Festival.
Naturalmente, secondo me, era la migliore. Ho avuto occasione di ascoltarla spesso dal vivo, proprio come un amore che tengo che tengo a portata di mano.
E' un pezzo venuto benissimo, che racconta i pensieri vincenti, ma parcheggiati fuori, come un'auto, e le parole che si lasciano tacere, vicino, tra la polvere del varcare la soglia e l'ombra dell'anima sul muro. In mezzo a questo frattempo scorrono l'attenzione, l'amore, le richieste. Sopra a tutto questo il cielo, è proprio il caso di dirlo, è in una stanza, anzi, in una casa.
Questo brano struttura la speranza di aprire ancora le porta verso una notte di stelle, verso un giorno che somigli a noi, e promuove la pregevolissima idea di consumare le novità, ma poco per volta, per quello che sarà.
Rivedere le immagini imperfette della televisione di quasi vent'anni fa mi ha fatto sentire sentimentale.

C'entrerà anche il fatto che Cristiano canta spesso cogli occhi chiusi, e mi coinvolge questo bisogno di contenere la voce e le parole, come a guardarle, ancora, pacatamente, dentro di sè, prima di lasciarle andare. Perchè sono qualcosa che debba uscire, che non gli appartiene più, come un nastro che si scioglie per essere riannodato.
Sorge la curiosità umana e estetica di immaginare se stia trattenendo il brano per pudore o per intensità, preso anche e sempre da altre emozioni e sentimenti che affiorano insieme ad esso, e che restano, questi sì, quasi del tutto, soltanto suoi. Cristiano alla fine volge quest'esperienza emotiva in un bel gesto di generosità espressiva, di naturalezza artistica. 
Schivo e indeciso da una parte, mite e tranquillo dall'altra, risolve tutto proprio aprendo gli occhi, offrendo agli sguardi la possibilità di osservare ciò che c'è dentro. Apre la porta di casa, con commozione, con ispirazione, ringraziando ciò che viene per essere arrivato.  
mercoledì, 16 marzo 2011

Dylan Dog al cinema

Ho letto stamattina la notizia che sta per uscire un film americano su Dylan Dog, grande compagno di strada e maestro di sguardo (offuscato, confuso, antieroico anzichenò).

L'ho incontrato quando è uscito l'albo N° 81 Johnny Freak, alla fine di maggio del 1993 -quindi era l'albo di giugno, adoro queste fisse maniacali da collezionista-.

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Che bell'anno il 1993: il primo anno di superiori, la scuola e gli amici. Iniziavo ad uscire spesso, è l'anno della foto storica della nostra crew davanti ai gradini della chiesa, un mesetto dopo che fosse uscito Johnny Freak.
Nello stesso periodo Fabrizio e Alberto mi hanno regalato tutti gli albi che loro avevano letto e messo da parte nel frattempo, nei mesi del militare o nelle pause delle trasferte di lavoro.

Di Dylan mi sono innamorata subito, e anche del cuore di Johnny donato al fratello Dougal dopo che questo gli aveva già portato via le gambe, facendolo diventare un mostro. Johnny, la fabbrica dei pezzi di ricambio, non aveva neppure imparato a parlare, e Dylan lo trova in mezzo agli stracci, come un cucciolo di cane.
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Il mio albo più amato però forse rimane "Memorie dall'invisibile", albo N. 19 in seconda ristampa, letto di seconda mano dopo che la prima era stata o quella di Abi o quella di Fabrizio. In questa vicenda c'è un assassino che s'innamora di una prostituta, che è l'unica ad accorgersi di lui e a salutarlo per le scale. Ricordo che lei viene accoltellata al ventre da un cliente, e il suo vicino invisibile si fa assassino.

Ho interrotto la mia collezione di Dylan solo pochi anni fa, perchè nel frattempo non avevo letto tutte le storie e non sapevo più quali pubblicazioni avessi già e quali no. Ad ogni modo in un paio d'anni o tre avevo quasi tutti gli albi fino al centoqualcosa. Poi Brunella mi ha rimediato le prime due uscite in seconda ristampa nel vecchio posto dove lavorava suo papà, che era una ditta delle parti di Settala dove li stampavano. Di questo enorme regalo, inaspettato e insperato, ricordo benissimo il momento. Era l'anno della gita ad Atene. Era la quinta liceo.

Quando ho fatto l'Erasmus ho trovato Dylan anche là, e ho pensato che sarebbe stato fantastico fare una tesi sulla traduzione degli albi in tedesco, se non avessi già scelto. Però non mi ricordo più come hanno tradotto "giuda ballerino" auf Deutsch.

Beh, insomma, adesso su Dylan un americano fa un film. Un americano, sì. Ma non ci mette Rupert Everett. E in questo sbaglia perchè la faccia di Dylan è la sua. E poi Dylan è alto e magro. L'attore che hanno scelto è muscoloso e non starebbe bene con le Clark dalle stringhe rosse.

Chiara, anni 14, portava le Clark con le stringhe rosse, perchè io leggevo Dylan Dog. A lei piaceva disegnarne i mostri. Avrebbe fatto il liceo artistico.


dylandog
La scelta che comprendo di meno riguarda l'assenza totalee, nel film, di Groucho e dell'Ispettore Bloch: Groucho è rimpiazzato da un altro assistente e l'ispettore di Scotland Yard è sparito perchè non si è non è più a Londra.

Sparito! Capo, vado a prendere la pistola, così spariamo anche noi?

Molte battute di Groucho le ricordo a memoria, io e Alberto ce le palleggiavamo sulla panchina dell'oratorio. Un maestro di umorismo, il vecchio Groucho.

Il regista del film americano ha detto che girare a Londra sarebbe costato troppo. Così Dylan non guida più nemmeno il maggiolone DYD 666 sulla sinistra. Chissà che macchina gli hanno dato.

La città dei mostri non è dunque più Londra, ma New Orleans. Somiglierà un po' a Mickey Rourke in versione Johnny Angel? Un Johnny Angel con la camicia rossa, che invece di trovarsi De Niro con le unghie lunghe s'imbatte in Xabaras coi baffi e la giacchetta.

Alla fine so che non andrò a vederlo, come non ho visto il Dorian Gray coi capelli scuri del film dell'anno scorso. Ma mi piace, mi diverte, sapere che c'è chi gioca coi miei personaggi.
venerdì, 11 marzo 2011
8marzMil1Chi domanda timorosamente, insegna a rifiutare.

Questa bella frase di Seneca è scritta sul giornale che mio papà si è comprato stamattina. Chissà se l’ha letta, lui che è un po’ un fifone, ed esagera nei formalismi, quando chiede, per paura di scontrarsi con l’opposizione del suo interlocutore.

Se chiedere quasi con vergogna, da una parte, è segno di pudore e discrezione, bisogna pure stare attenti che non abbia conseguenze negative, quali, appunto, l’arroganza di chi ascolta.

Trasmetto, talvolta, nel lavoro, qualche abilità di tipo tecnico, nella sfera della logica, o in quella linguistico-espressiva. Ma soprattutto mi piacerebbe insegnare la dignità delle domande: Perché? Perché no? Si può fare o dire anche diversamente?

La dignità dei dubbi e delle perplessità vale quanto l’intero concetto dell’ educazione, dell’evoluzione dell’intelligenza, cognitiva o affettiva che sia, perché la formazione è solo un avviamento all’esperienza, la quale, di per sé, è fatta per produrre interrogativi. Molti più interrogativi che risposte.

Non più di due settimane fa ho provato a presentare a due classi di terza mezza dozzina di modi diversi per raccontare la seconda Rivoluzione Industriale, privilegiando, ogni volta, un punto focale preciso e distante dagli altri, comunque sempre validi e necessari.

Quando una persona riflette su qualcosa, indipendentemente da quante informazioni abbia, è difficile che possa fare considerazioni banali. Allo stesso modo non esistono le solite domande: non mi è mai capitato un gruppo classe, e in questo caso mi vengono in mente prima di tutto gli adulti, coi quali abbia funzionato in maniera prevedibile l’apprendimento, ad esempio, del present simple.   
Chi non sa fare domande ardite, non sa seguire le proprie associazioni mentali e metterle in campo per discuterne con qualcuno – parlo di apprendimento, non di insegnamento- farà fatica ad acquisire vere conoscenze.

Spero sempre di riuscire a convincere la gente a smettere di chiedere il permesso per fare una domanda.

Uno dei drammi di base dei personaggi di Kafka è la loro arrendevolezza di fronte all’elusività delle risposte, accondiscendenza che affiora tutta d’un colpo e che determina la fine, e la colpa, dei personaggi stessi.

Perché dovrebbe esserci una rinuncia a una domanda? Perché si temono forse un rifiuto, o uno scarto tra la logica che ha suscitato la questione e la possibilità di farla rientrare nel dibattito?

Diffido degli insegnanti che scartano le domande, dei medici che negano la pazienza di spiegare un fatto sconosciuto per il paziente, soprattutto se lo riguarda, e anche degli intellettuali che interloquiscono tra di loro tagliando fuori le intelligenze altrui. Naturalmente considero una sfortuna ogni classe politica e dirigenziale che abolisca la complessità.

Non fosse altro che tutti, e tutto, hanno bisogno di un certo assenso. 
 
martedì, 08 marzo 2011
8marMil2Auguri e coraggio alle donne per i loro diritti... e incessante solidarietà per i tanti rovesci.

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