lunedì 9 gennaio 2012

metro5Ho iniziato Ascetismo metropolitano, il saggio di Duccio Demetrio dedicato alla religiosità dei noi credenti, ma il desiderio di ascoltare la sua voce ha orientato la mia attenzione prima di tutto verso un mp3 disponibile sul sito della Libera Università dell’Autobiografia (www.lua.it), da lui fondata.
L’idea di scrivere un testo su questo tema è nato quando Demetrio, che insegna Filosofia dell’educazione, ha condotto a Torino un gruppo di aspiranti asceti torinesi nel fare esperienza di scrittura sotto la metropolitana.
Usando la scrittura si entrava nella profondità di un interrogativo: esiste un’ascesi diversa dalle ascesi consuete, quelle che appartengono alla storia della mistica credente? Chi la pratica?
Chi da tempo osserva ed esplora di sé i cunicoli, le profondità, ombre, ha certo anche necessità di ascesi e di elevazioni.
Demetrio spiega che accanto a questa esperienza c’è l’amicizia ventennale con don Virginio Colmegna. Insieme, a Milano, hanno inventato modi diversi di stare tra la gente, soprattutto coi giovani, praticando e diffondendo quella che oggi si chiama l’educazione di strada, come modalità di aiuto, di intervento e di partecipazione civile. Don Virginio e Duccio Demetrio sono, ma non ha mai contato molto, un credente e un non credente.
Anche ai non credenti va riconosciuto un vissuto di profonda religiosità. E qui bisogna distinguere religione e religiosità. C’è la religione delle grandi tradizioni che ci lega ad un trascendente, a un invisibile, a un sacro. La religiosità invece è qualcosa che ci portiamo appresso come assunta inevitabilmente attraverso il nostro vivere e il nostro vissuto, laddove esista una profonda inquietudine e un profondo scontento. Lo scontento riguarda sia ciò che le fedi presentano e indicano, in modo più o meno rigido e dogmatico, sia verso gli assolutismi atei. La terza possibilità è, appunto, ritrovare queste fonti del mistero e dell’enigma credendo che esista una via di ricerca interiore, assolutamente personale, dove il volto di Dio si confonde con i volti degli altri, ricompare dentro di noi nei momenti in cui sentiamo la debolezza di ciò che si dice Dio.
L’asceta metropolitano non rinuncia incontrarsi e a vagare nei sotterranei e nei luoghi ingrati delle città, nelle periferie sterminate senza soluzione di continuità. Questa indagine non è soltanto materialistica, la ricerca del finito e dell’accontentarsi. L’asceta metropolitano cerca il suo infinito, ma lo cerca tra la gente, non in una solitudine lontana dall’umanità che frequenta tutti i giorni. Rinuncia perciò talvolta alla bellezza dei luoghi dove solitamente l’ascetismo viene coltivato. Non rifugge la folla per avere silenzio. Non vuole essere aristocraticamente distante dalla folla che si accalca, cerca invece una possibilità affettiva nei confronti della folla che ci attornia e che va riesplorata. Ad essa occorre ridare parola, ridare volto.
L’asceta metropolitano è, innanzi tutto, invisibile. Non ha chiese, non ha gruppi, non ha comunità. E’ ciascuno di noi che non si accontenta della fede, ma non si accontenta nemmeno della negazione assoluta della fede. Crede, al limite, al Dio che chiede all’uomo un aiuto. Questo è un Dio inconcepibile per chi crede. Anche Cristo, per l’asceta non credente, è un grido di dolore contro il senso disperato del nulla, perché il nulla è insufficiente per ciascuno di noi. Anche per chi non crede ad alcuna religione rivelata.
Cfr. Duccio Demetrio, Ascetismo metropolitano, Ponte alle Grazie, 2009.

mercoledì, 26 ottobre 2011

Mostra di Paola Geranio: Soul's Path

paola
Quando Paola mi ha invitato nel suo studio quest'estate, stava dipingendo i quadri per la mostra che inaugurerà a Treviglio il prossimo 20 novembre. Mi sono piaciuti tanto, subito.

Poi la scorsa settimana, all'Acquario Civico di Milano, ho scoperto l'artista mantovano Claudio Malacarne, che esponeva lì la sua mostra Acquatico, fino alla fine del mese. Sapevo che anche a Paola sarebbe piaciuto. Hanno la stessa vocazione ad andare in profondità, lo stesso stupore per l'elemento acquatico, lo stesso amore per i gesti e per la luce.

Oggi ho letto la recensione alla sua mostra, e il critico ha scritto che anche la mia amica combatte dalla parte della bellezza, contro la modernità liquida di cui abbiamo tanto parlato.

Sincronicità.




SoulSoul’s paths
Sentieri dell’anima


Paola Geranio, giovane pittrice pavese, insegnante, formatasi presso l’Accademia di Brera a Milano, rappresenta una delle voci più nitide e chiare nel panorama locale dell’arte contemporanea.
Il percorso artistico che da qualche anno ha intrapreso e che con tenacia e determinazione sta seguendo, rivela una personalità forte, consapevole della complessità del mestiere di artista, ma determinata farlo proprio, come un’esperienza di vita.
Arte e vita, nell’opera di Paola, sono una cosa sola: il sentiero dell’anima è allo stesso tempo sentiero della pittura che dell’anima si fa – fatalmente – specchio.
Luce, nitore, chiarezza sono tre elementi stilistico formali che nelle tavole di Paola non mancano mai. I colori, a olio o acrilici, si dispongono nelle figure in modo preciso e senza sbavature o segni di incertezza. Il tratto cromatico sembra dirci che l’immagine non si sarebbe potuta comporre che così, senza alternative, né compromessi. I protagonisti delle tavole si stagliano con chiarezza, illuminati dalla luce dei colori.
Già così ci viene rivelata la prima finalità dell’atto pittorico: una sfida coraggiosa e precisa alla sfuggente fluidità del reale. Un segno e un disegno così forti sembrano essere la dichiarazione più evidente della volontà di non arrendersi alle derive più pessimistiche del pensiero contemporaneo: si pensi alla società liquida di Bauman, un mondo postmoderno incerto, in continua evoluzione, privo di solidità,nel quale il sentimento di inadeguatezza e l'ansia di consumo costringono a vivere secondo regole instabili, che non possono che disorientare e spingere, come alternativa rassicurante, ma al contempo impoverente, a cercare un appiattimento e una omologazione disarmanti.
E Paola ha sempre rifuggito da qualsiasi tentazione di conformismo artistico. Dopo alcune frequentazioni nell’ambiente dell’arte concettuale, ha preferito tornare al figurativo, ma astenendosi da percorsi di tipo paesaggistico descrittivo o narrativo sociale e preferendo un’arte di immediata leggibilità, nella quale il tema di ricerca si manifesta nella chiarezza dei dettagli, nella precisione dell’immagine, nell’evidenza cromatica e pittorica del soggetto.
Nascono così le opere sulla fiaba (Il Nano Tremotino, La principessa sul pisello, La Sirenetta, fra le altre), a ribadire che la pittura è un atto profondo, complesso, che tocca le corde dell’inconscio, al di là della sua apparente chiarezza. E così poi prendono corpo i colori, come veicoli di contenuti simbolici (l’anelito all’infinito nel blu, la mente e l’origine della vita nella trasparenza dell’acqua).
Paola ha quindi scelto una strada artistica intensa e difficile, pienamente convinta che nulla, nell’atto pittorico, possa essere vuoto di significato, decisa a perseguire un obiettivo di senso compiuto, dove ogni singolo quadro è frammento di un percorso di ricerca decisamente personale. Non si intende qui utilizzare l’aggettivo “personale” come sinonimo di privato, autonomo, o addirittura non condivisibile. La pittura di Paola Geranio è un veicolo di comunicazione, prima di tutto, e quindi necessariamente con essa si propongono temi, si lanciano provocazioni, si affrontano percorsi complessi.
L’artista non ci chiede di condividere il viaggio che intraprende; non lancia segnali ammiccanti, né cerca di blandirci con immagini che seguono la moda della modernità pittorica più recente. Al contrario ci invita a tornare a un pensiero classico e nobile sull’arte, senza eccessi, né sensazionalismi: l’arte è percorso umano, è frammento della nostra anima, è immagine della nostra coscienza.

giovedì, 20 ottobre 2011

Pericoli

W13THOggi, il modo con cui guadagniamo i mezzi per vivere, i valori della professionalità, la valutazione che la società dà alle virtù e ai successi, i legami intimi e i diritti acquisiti, tutto questo è fragile, provvisorio e soggetto alla revoca. E nessuno sa quando e da dove arriverà il colpo fatale. Mentre i nostri antenati sapevano bene che occorreva avere paura di lupi affamati o dei banditi sui cigli delle strade. Non è quindi l'astrazione a rendere i pericoli apparenza più gravi, ma la difficoltà di collocarli, e quindi di evitarli e di controbatterli.

Zygmunt Bauman, non mi ricordo

mercoledì, 19 ottobre 2011

Scrivere

In una delle mie fantasie ricorrenti, io sono un’insegnante di letteratura in una scuola superiore, che sa che uno degli interrogativi perduranti ai quali bisogna cercare di fornire risposte è: a che cosa serve leggere, e magari anche scrivere, e poi pure studiare, letteratura? Tra le cose che metto da parte c’è una collezione di possibili opinioni, compreso il responso secondo il quale l’esperienza della letteratura non serve affatto.
Un altro frammento utile a nutrire all’infinito il dibattito è questo inciso di Kundera preso dal suo romanzo più importante.

E ancora una volta lo vedo così come mi è apparso all’inizio del romanzo. E’ all’inizio e guarda nel cortile il muro della casa di fronte.
E’ l’immagine dalla quale egli è nato. […] I personaggi non nascono da un corpo materno come gli esseri umani, bensì da una situazione, da una frase, da una metafora, contenente come in un guscio una possibilità umana fondamentale che l’autore pensa nessuno abbia mai scoperto o sulla quale ritiene nessuno abbia mai detto qualcosa di essenziale.
Ma non si dice forse che un autore non può parlare che di sé stesso?
Guardare impotenti nel cortile, senza sapere che cosa fare; sentire l’ostinato brontolio della propria pancia nell’attimo dell’esaltazione amorosa; tradire e non potersi fermare sulla bella strada dei tradimenti; alzare il pugno nel corteo della Grande Marcia; esibire il proprio umorismo davanti ai microfoni nascosti della polizia; tutte queste situazioni le ho conosciute e vissute io stesso, e tuttavia da nessuna di esse è sorto un personaggio che sia me stesso col mio curriculum vitae. I personaggi del mio romanzo sono le mie proprie possibilità che non si sono realizzate. Per questo voglio bene a tutti nello stesso modo e tutti nello stesso modo mi spaventano: ciascuno di essi ha superato un confine che io ho solo aggirato. E’ proprio questo confine superato (il confine oltre il quale finisce il mio io) che mi attrae. Al di là di esso incomincia il mistero sul quale il romanzo si interroga. Un romanzo non è una confessione dell’autore, ma un’esplorazione di ciò che è la vita umana nella trappola che il mondo è diventato.
L’insostenibile leggerezza…, pp. 225-6
ugo

sabato, 15 ottobre 2011

Sfide

hundertwasseerLa nostra vita è un'opera d'arte – che lo sappiamo o no, che ci piaccia o no. Per viverla come esige l'arte della vita dobbiamo – come ogni artista, quale che sia la sua arte – porci delle sfide difficili (almeno nel momento in cui ce le poniamo) da contrastare a distanza ravvicinata; dobbiamo scegliere obiettivi che siano (almeno nel momento in cui li scegliamo) ben oltre la nostra portata, e standard di eccellenza irritanti per il loro modo ostinato di stare (almeno per quanto si è visto fino allora) ben al di là di ciò che abbiamo saputo fare o che avremmo la capacità di fare. Dobbiamo tentare l'impossibile. E possiamo solo sperare – senza poterci basare su previsioni affidabili e tanto meno certe – di riuscire prima o poi, con uno sforzo lungo e lancinante, a eguagliare quegli standard e a raggiungere quegli obiettivi, dimostrandoci così all'altezza della sfida. L'incertezza è l'habitat naturale della vita umana, sebbene la speranza di sfuggire ad essa sia il motore delle attività umane. Sfuggire all'incertezza è un ingrediente fondamentale, o almeno il tacito presupposto, di qualsiasi immagine composita della felicità. È per questo che una felicità «autentica, adeguata e totale» sembra rimanere costantemente a una certa distanza da noi: come un orizzonte che, come tutti gli orizzonti, si allontana ogni volta che cerchiamo di avvicinarci a esso.

Zygmunt Bauman, L'arte della vita

venerdì, 14 ottobre 2011

Bauman: cultura e istruzione

ol La nostra società è ormai fatta di offerte e non di norme, vive di seduzione non di regolamentazione. Anche la cultura diventa un emporio di prodotti destinati al consumo, ciascuno dei quali si trova in concorrenza con gli altri per conquistare l’attenzione mutevole e vagante dei potenziali consumatori. La strategia “giusta” è quella di abbandonare gli standard troppo rigidi, di accontentare tutti i gusti senza privilegiarne uno, promuovere la saltuarietà ed esaltare l’instabilità e l’incoerenza: fare i pignoli, mostrarsi sorpresi e stringere i denti è sconsigliato.
La continua produzione di nuove offerte e il volume in ascesa costante di beni offerti sono necessari per rinfrescare costantemente il desiderio di sostituire i beni con altri nuovi e migliorati, e per evitare che l’insoddisfazione dei consumatori sui singoli prodotti si rapprenda in una disaffezione generale verso lo stile di vita consumistico in quanto tale.
La cultura si sta trasformando in un reparto dei grandi magazzini.
La cultura non ha più “persone” da “coltivare” ma clienti da sedurre. E a differenza del concetto di formazione che l’ha preceduta, non punta più a portare a termine il proprio compito. Il suo lavoro consiste solo nel rendere permanente la propria sopravvivenza, temporizzando tutti gli aspetti dell’esistenza di coloro che erano affidati alla sua tutela, che rinascono come clienti.
Le teorizzazioni sull’identità di oggi farebbero bene ad abbandonare le metafore delle “radici” e dello “sradicamento” e sostituirle con l’immagine del gettare e issare le ancore. Gettare o issare un’ancora, contrariamente al mettere le radici e allo sradicare non ha niente di irrevocabile né definitivo. La metafora dell’ancora coglie l’intreccio di continuità e discontinuità nella storia di tutte le identità contemporanee.
Simili a navi che saltuariamente o frequentemente attraccano in diversi porti, i vari io in cerca di riconoscimento e di conferma si sottopongono alla verifica e all’approvazione delle comunità di riferimento cui chiedono di essere ammessi nel corso del viaggio.
Nel mondo liquido-moderno la capacità di durare non depone più a favore di qualcosa e la prospettiva che ci venga rifilata un’unica cosa per tutta la vita è assolutamente ripugnante e spaventosa.
Eccoci perciò ai problemi dell’istruzione.
Il consumismo di oggi non consiste nell’accumulare oggetti, ma nel goderne una tantum. Il pacchetto di conoscenze acquisito a scuola o all’università, se non è adatto all’utilizzo immediato e una tantum, se non fornisce un sapere ad uso e smaltimento istantaneo, non sembra adatto alla vita.
E dunque il fatto che l’istruzione si consegua per appropriarsene e per conservarla non depone più a favore dell’istruzione istituzionalizzata.
In tutte le epoche il sapere è stato valutato in base alla sua capacità di rappresentare fedelmente il mondo. Ma se il mondo cambia in modo da sfidare in continuazione la verità del sapere esistente, pure i più colti e ben informati rischiano di essere colti di sorpresa. Qual è l’insegnante è evidentemente autorevole, a questo punto? E quale insegnante è abbastanza sicuro di sé da scolpire una forma giusta, bella, buona, retta e nobile di trasmissione delle conoscenze?
Il mondo dei nostri giorni appare più un meccanismo per dimenticare che un ambiente per apprendere. Guai a chi ha buona memoria: i percorsi di insegnamento e di apprendimento affidabili di ieri si rivelano appena poco tempo dopo vicoli ciechi che finiscono davanti a un muro o nelle sabbie mobili. Gli schemi di comportamento consueti e un tempo infallibili diventano forieri di disastro anziché di successo.
In un mondo simile il sapere è destinato a inseguire senza fine oggetti sempre elusivi.
Il sapere e l’istruzione tradizionali erano fatti a misura di un mondo che era durevole, sperava di rimanere tale e intendeva diventarlo ancor più di quanto non lo fosse stato fino ad allora.
In un mondo simile la memoria era una ricchezza, e il suo valore era tanto maggiore quanto più indietro essa andava e quanto più a lungo durava.
Oggi una memoria così saldamente ancorata appare d’impiccio, inutile e fuorviante.
Nel nostro mondo volatile di cambiamenti istantanei, le abitudini consolidate, gli schemi cognitivi solidi e le preferenze di valore stabili diventano handicap. O, quanto meno, questa è la parte assegnata loro dal mercato della conoscenza, che odia i legami indistruttibili e gli impegni a lungo termine. “Indagare” e “approfondire” sono termini ormai obsoleti.
Le risposte a segnali confusi tendono a essere altrettanto confuse. In assenza di precedenti affidabili e di schemi di comportamento collaudati, si reagisce di regola per tentativi ed errori. Usciamo da una confusione solo per approdare a un’altra confusione. E in questo processo non impariamo molto, a parte la necessità di prepararci ad altre situazioni ambigue e precarie e di sopportare le conseguenze di nuovi passi falsi.
“Vali quanto il tuo ultimo successo”: questa è la regola di buon senso per vivere in un mondo in cui le regole cambiano durante la partita e una regola non rimane quasi mai valida più del tempo necessario a impararla e a memorizzarla.
Lo slogan di oggi è flessibilità, che Bauman definisce il nome politicamente corretto per indicare l’assenza di spina dorsale.
E’ il mondo fuori dalla scuola ad essere molto cambiato. In questo mondo nuovo si chiede agli uomini di cercare soluzioni private a problemi di origine sociale, anziché soluzioni di origine sociale a problemi privati.
Il genere di sapere che uomini e donne di questi tempi cercano viene da consulenti che insegnino loro a camminare, e non da insegnanti che li portino ad incamminarsi su un’unica strada già molto affollata. i consulenti che essi cercano, e che sono disposti a pagare, devono aiutarli a scavare in profondità nel carattere e nella personalità perché la chiave del successo è andare avanti per la propria strada in solitudine.
Ai propri clienti i consulenti rimproverano la pigrizia o la negligenza più che l’ignoranza, e offriranno loro una conoscenza operativa, anziché fattuale, un savoir faire anziché il tradizionale savoir.
Il culto dell’istruzione permanente deve la sua popolarità alla convinzione che si debbano individuare maestri spirituali in grado di attingere ai giacimenti ancora vergini della nostra personalità inesauribile.
Mentre la cultura e l’istruzione tradizionali si volgevano all’ignoto, oggi è ogni cosa conosciuta ad avere l’aria minacciosa. La massa impenetrabile dell’informazione sta tutta qui, a portata di mano, disponibile eppure beffarda e esasperante nella sua distanza, tenacemente estranea e indifferente, inafferrabile.
Attribuire importanza alle diverse informazioni, e soprattutto attribuire maggiore importanza ad alcune rispetto ad altre è forse il compito più sconcertante e la decisione più difficile.
Anche le informazioni, come altre merci sul mercato, sono destinate a un utilizzo istantaneo, sul posto e una tantum.
Il futuro non è più un tempo da attendere con impazienza: esso non farà che accrescere le odierne difficoltà, incrementando in maniera esponenziale la quantità di sapere che già oggi ci stordisce, ci soffoca. La massa stessa della conoscenza offerta è la principale minaccia alla fiducia in noi stessi. Ci logora il tarlo che ci sia la risposta ai problemi che ci affliggono, ma che non riusciamo a trovarla.
Il mutamento in corso è diverso da quelli verificatesi in passato. Mai gli educatori hanno dovuto prima d’ora affrontare una situazione simile. L’arte di vivere in un mondo sovrasaturo d’informazione non è stata ancora appresa. E lo stesso vale per l’arte, ancor più difficile, di preparare gli uomini a questo genere di vita.
Cfr. La cultura dell’offerta, in: Capitalismo parassitario, 2009, pp. 29-67.

Nessun commento:

Posta un commento