lunedì 9 gennaio 2012

Calcio giovanile bis

snoopy“Devi dirmi da dove sei venuto fuori!” mi disse una volta mia madre, mulinando un mestolo, quando seppe che avevo fallito per la terza volta una verifica di matematica.
Stavo andando all'allenamento -quel sabato ci aspettava una spietata trasferta a Faenza contro la Dinamo- e lei cercò di strapparmi di mano il borsone blu dell' AC Casola.
Io non sapevo da dove ero venuto fuori, però non mollai la presa.
“Vai, vai” disse alla fine, lasciando il borsone, “chissà che un giorno non riescano a spaccarti la testa, così finalmente vediamo cosa c'è dentro”.
Non cercava neanche di confinarmi in camera mia, per punizione.
Sapeva che sarei scappato dalla finestra.
Una volta aveva provato a lanciarsi all'inseguimento, tuffandosi giù per le scale e tagliando per il cortile, ma io avevo già macinato i trenta metri di salita che mi separavano dal campo sportivo.
Per un secondo la vidi agitare i pugni chiusi sopra la testa.
“Dimmi da dove sei venuto fuori!” strillò, continuando ad avanzare.
Non si riferiva alla finestra.
Mi ero fiondato negli spogliatoi.
“E' l'unico territorio in cui una mamma non ha giurisdizione” spiegherò ai miei figli.
Come mia mamma, anche gli altri adulti alla fine si arrendevano.
Fratello Lasi smetteva perfino di appiopparci note sul diario, e ci supplicava di non toccare palla nei giorni che non fossero quelli di allenamento.
Era impossibile, perchè ogni pomeriggio un benedetto pallone ti ruzzolava chissà come tra i piedi.
Ti saltellava tra le gambe come un cagnolino affettuoso, capace di annusare il tuo odore a miglia di distanza.
Solo un essere senza cuore, a quel punto, non ci avrebbe giocato.
I professori, tutto d'un tratto, si rendevano conto che i nostri voti non avrebbero lasciato ferite mortali.
Scoprivano di non avere tempo, né voglia, di impantanarsi in una guerra persa in partenza.
Mettevano da parte le prediche, autografavano qualche insufficienza da fare controfirmare ai genitori e lasciavano perdere.
Avevano cercato di allontanarci dal calcio, ma non ci sarebbero mai riusciti.
Era il calcio che si rifiutava di allontanarsi da noi.


Da: Cristiano Cavina,
Un'ultima stagione da esordienti, pp. 87-9

venerdì, 11 novembre 2011

Calcio giovanile

snoopy-che-scriveVista la passione profonda del massimo dei nostri amici per l'argomento, ecco una summa a puntate dal librio di Cristiano Cavina Un'ultima stagione da esordienti.

Eravamo una squadra che suscitava un sacco di allegria, in trasferta. Almeno prima del fischio di inizio. Le nostre maglie blu erano sbiadite da infiniti lavaggi e i numeri si scucivano dopo pochi minuti. Alcuni di noi avevano le scarpe di qualche misura in più, per non doverle ricomprare nuove ogni anno. Poi si cominciava a giocare, e saltava fuori che non era per niente facile batterci. Non che fossimo nei fenomeni, a parte il Grande Poggio. Ma eravamo affamati del pallone. Gli davamo la caccia, come predatori. Eravamo nati per quello. Nell'ecosistema dei campionati giovanili, eravamo in cima alla catena alimentare.



giovedì, 10 novembre 2011
metro4Nel 2003, quando è uscito il suo romanzo d'esordio “Alla grande” Cristiano Cavina è venuto a Lodi ch'era maggio. Bastiano Casaccia era lui, diventato grande, e ci raccontava, con grande pudore e divertimento, la sua infanzia e prima adolescenza in Romagna, dalle parti di Faenza.
Adesso, nell'antologia di prima media che abbiamo a scuola, c'è un brano di quattro pagine dedicato alle disavventure scolastiche di Bla, Piter Cammello, Donna, Bomba e degli altri che vogliono fare un sommergibile usando un vecchio bidone, per portare ricchezza tra le loro famiglie.
Per una felice coincidenza mi sono appena messa a rileggere il romanzo successivo di Cristiano Cavina “Un'ultima stagione da esordienti”, perchè nell'area di approfondimento delle materie letterarie si è da poco colto il pretesto del calcio, per far venire ai ragazzi un po' di voglia di leggere.
Perciò, tra una campanella e l'altra, voglio far leggere non solo ai nostri alunni, ma anche ai miei amici delle impennate in bici di quei ragazzi, e dei loro pomeriggi sul campetto di pallone.
Era maggio. A maggio la campanella della scuola sembrava trillare più spesso. A novembre passava un secolo tra una campanella e l'altra. Per non parlare di gennaio. No. Maggio era un buon mese per le campanelle.
Me ne andavo a scuola in Turboberta (la sua bici), e incominciavo a impennare già dal giornalaio, in modo che tutti, ma proprio tutti, mi vedessero per bene. Se adocchiavo qualcuno di terza o di seconda, abbassavo la ruota, con calma, ma se erano della mia età, allora mi gonfiavo come un tacchino, e imboccavo la salita della scuola sulla ruota di dietro.
Le chiome degli alberi erano di un verde perfetto, e l'aria fresca si infilava sotto le ultime maglie a maniche lunghe.
Quel brano si conclude con una scena romantica tra Bastiano e il suo amore, Milena Barzaglia, in quell'età mitica, primigenia, magica, in cui uno sguardo vale più di mille parole. La scena è vissuta ovviamente sempre in classe, non appena finite le vessazioni di un insegnate fetente.
Alzai la testa, e incontrai gli occhi di Milena. Rimasi a bocca aperta, dimenticandomi di distogliere lo sguardo. C'era acqua pulita, in quegli occhi. Non serviva un sommergibili per vedere cosa c'era sul fondo. Mucchi di perle. Una sopra l'altra.

martedì, 08 novembre 2011

Assorti nei propri passi

munchTerminiamo oggi gli appunti su Ascetismo metropolitano di Duccio Demetrio
Assorti nei propri passi
Per adempiere il compito interminabile di umanizzarci facciamo di ogni sentiero un’occasione di ulteriore consapevolezza. Scoprire la strada lungo il cammino ci rende capaci di esistere nella mutevolezza, nell’imprevedibilità del percorso, persino nel perdere la meta, strada facendo. Camminiamo nella presa di coscienza del limite, del confine, dei bordi della strada e della sua fine. Proseguire lentamente ci educa in concretezza, ci invita a cogliere l’istante come senso morale di presenza nel mondo, nella storia, nella relazione, nella fraternità.
Camminare è saper vivere pienamente, e ogni percorso che andiamo comprendendo da soli ci realizza però solo se la solitudine si schiude agli altri.
L’incedere ha sempre espresso la fatica del vivere: l’andare a piedi non serve all’eroe soltanto per raggiungere uno scopo, la vera ricompensa sta nello scoprire le ragioni di tanto affanno.
Il viandante deve accettare che la dimora alla quale spera di giungere, varcata la soglia, si riveli diversa da quella immaginata. La strada così non cessa di essere specchio della nostra più libera irraggiungibilità.
Come in tanto romanticismo tedesco, mi viene in mente, soprattutto, dove l’etica del viandante percorre pressoché tutte le opere principali, l’immagine di me che cercavo, e il luogo desiderato che saprà definirmi, non possono che somigliare anche a ciò che ho lasciato e perduto.
La scrittura come anacoresi
Scrivere ci protegge e ci inguaina in noi stessi.
La scrittura crea il silenzio, per questo essa è già un gesto ascetico. La scrittura è il livello più alto, secondo Demetrio, di un’ascesi metropolitana che persegua il silenzio e la solitudine, dentro la folla. L’io narrante e pensante pratica un’anacoresi delle membra.
La scrittura si incarica di mutare i fragori vissuti, ogni inutile schiamazzo, in tonalità attenuate e lontane, fino ad affidarle alla vista, sfocata, di noi che le abbiamo annotate. Il ricordo può accettare di restare soltanto un’immagine, eternamente sfocata.
Lo scrittore persegue il proprio piacere, o il dovere, di sentirsi esistere contro le avversità, i rimpianti, in una vita meno ferita e meno fragile grazie a quel gesto.
Si cerca la scrittura quanto più si desidera il silenzio, quando si ha un bisogno vitale di silenzio. Il silenzio diventa così una condizione concreta, una percezione del corpo e dei sensi che si innerva, oltre che nello stile e nelle pieghe del pensare, fin nella nostra postura.
Ogni foglio scritto è il riflesso infedele di ogni nostra domanda.
Pur senza riuscire mai a metterci a fuoco bene davanti alla nostra storia, chiediamo alla penna di renderci somiglianti a quel che credemmo di essere o vorremmo diventare.
Le parole che escono dalla penna hanno l’aura delle cose silenziose, non vengono dall’ascolto, ma dall’interiorità. Hanno sconfitto l’oblio, per recare traccia dei nostri sogni, dell’inconscio, delle esperienze. Scriviamo per sfuggir le trappole della disattenzione verso noi stessi. Il silenzio della scrittura ci permette di ritrovarci con gratificante rapidità. Il vero e proprio processo intellettivo è quello che comincia dove finisce la parola scritta: in quel momento, a quel punto, si manifesta qualche cosa di integro e produttivo al pari della parola.
Quando il silenzio e la scrittura riescano a restituire a sé un’anima che si fosse dimenticata di se stessa, allora si trasformano in un gesto di solidarietà socialmente utile.
Ascetica è la volontà di riconquistare e ridefinire la solitudine come risorsa, come resistenza attiva proponente; come espressione di una tolleranza reciproca, più che di una malcelata sopportazione. Non è ritirarsi e fuggire dalle responsabilità della cittadinanza comune. E’ un’aspirazione senza proselitismo, affinchè ognuno scopra il valore della solitudine per il suo proprio riscatto.
cfr. op. cit., pp. 126-149

lunedì, 07 novembre 2011

Rilke asceta della prosa: reprise

orchideaAppunti sulla melodia delle cose è la raccolta di prose-frammenti rilkiani che è più costantemente incentrata sulla mistica ascetica dell’autore, lontana da ogni possibile dogma e stabile certezza.
Riporto la parte di un brano che riguarda le opere degli uomini.
Se mai, da qualche parte, c’è stato un uomo che abbia creato in giorni di indicibile raccoglimento l’universo in un’opera […] è possibile che il progresso e la lontananza di questa vita siano andati perduti perché il tempo ha distrutto la forma della sua opera che noi più non possediamo? O non parla invece in noi la certezza di una voce, dicendoci che il soffio nell’opera in divenire ha solcato i suoi confini per agire su fiori e animali, su declivi e sedimenti, sui parti delle donne. Chi può sapere se questa immagine, questa statua o questa poesia di altri tempi non fossero, tra le molte, che la prima e la più prossima metamorfosi che portò a compimento la forza creatrice nell’istante della sua chiara trasfigurazione? Le cellule delle cose allontanate si disposero forse nell’ordine di nuovi ritmi nascenti e allora si dette l’occasione per nuove specie e non è impossibile che noi ci siamo differenziati grazie al potere di un poeta solitario vissuto cento e cento anni fa e di cui non sappiamo nulla. O c’è qualcuno che pensa seriamente che la preghiera di un santo, l’abbandono e l’indicibile agonia di un bambino morente, l’isolamento di un grande criminale nella sua cella si siano potuti dissolvere come un Sì o un No o come l’urto di una porta che si chiude?
Io credo che tutto quel che realmente accade non tema la morte; credo che le volontà di uomini scomparsi da lungo tempo, il movimento con cui si aprì la loro mano in un istante colmo di significato, il loro sorriso mentre stavano a una lontana finestra, credo che tutte queste esperienze vissute dai solitari nel corso d’innumerevoli metamorfosi, vivano in mezzo a noi. Sono qui, forse un po’ in disparte, in direzione delle cose, ma sono qui, come le cose stesse, e come loro sono parte della nostra vita.
Cit., pp.53-4

domenica, 06 novembre 2011

Rilke asceta della poesia: reprise

metroMe lo domandano, e molto volentieri continuo a citare Rilke in perpetuo tumulto, scegliendo dal Libro delle ore un’altra poesia famosissima, alla quale all’inizio non avevo pensato.

Io vivo la mia vita in dilatati circoli
che sopra le cose si girano.
Forse l'estremo d'essi mai non potrò comprendere,
ma pur cercarlo voglio.

Io giro attorno a Dio, alla Torre antica dell’inizio,
le giro attorno da migliaia di anni,
e ancora non so se sono un falco, o una tempesta,
o un canto forse- e grande.
Ecco un altro componimento da uno dei momenti più alti delle Elegie duinesi:
E chi allora, se gridassi, mi sentirebbe, degli ordini
angelici? E anche supponendo che uno di loro
improvvisamente mi stringesse il cuore: morirei
della sua più forte essenza. Perché la bellezza non è altro
che l’inizio del tremendo, che appena riusciamo a sopportare,
e ci fa tanta meraviglia perché, tranquilli, disdegna
di distruggerci. […]

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