lunedì 9 gennaio 2012


Non ho ancora riportato gli appunti di una vecchia lezione tenuta da Carlo Sini su Narciso un paio d'anni fa, ma posso raccogliere le interpretazioni del mito che dà la psicanalisi, secondo le pagine del libro di Demetrio, sul quale sto studiando, per cercare i turbamenti dell'anima che insegnano a non temere il dolore.

Narciso muore inconsapevole e vanesio perchè non sa interrogare il suo alter ego, non sa riconoscersi, non sa pensarsi, non può immaginarsi diverso.

Si ama senza saperlo.

Narciso è sordo ai richiami di un amore normale che lo salverebbe dal precipitare nel delirio dell'indistinto, tra il riflesso e la sua corporeità.


Una scissione opportuna lo salverebbe, accettando di rispecchiarsi nel corso del tempo alla stessa fonte, accettando di vedersi cambiare. Invece si strugge, muore di inedia, forse per debolezza estrema dinanzi all'amore che non gli risponde. L'acqua limpida diviene palude.

Narciso muore per non essere riuscito a sapere, perchè non sa rispondere alla domanda: "Chi sei tu?", nell'ottundimento di un'inquietudine che lo ammutolisce.

Questa la prima versione.

Ovidio dice invece che forse Narciso sarebbe vissuto fino a tarda età se non avesse conosciuto se stesso. Narciso vuole afferrare ciò che vede ed entra in un'inquietudine inconsapevole che lo divora. Vorrebbe amare un altro, ma non sa amare se stesso. Ad un certo punto capisce di essere il proprio riflesso. Si riconosce ma quell'immagine che ora gli appartiene, scoperta come propria, sancisce l'impossibilità del possesso definitivo. Esclama: "ho già ciò che desidero". Può possedere l'altro, usarlo, e contemporaneamente sfuggirsi eternamente. "La mia stessa abbondanza mi fa povero".

Si salvano tutti, grazie alla loro inquietudine, tranne Narciso perchè non sa decifrarla, il troppo se stesso lo annichilisce.

Troppa coscienza- prudenza, fede, responsabilità- toglie però all'umano passioni e istinti. Narciso diventerà un fiore condannato a rispecchiarsi per sempre: si lasciò morire per troppo coscienza di sè o per assoluta mancanza di riflessione.

Eros, dio degli affetti e della conoscenza, governa l'animo in perpetua pena. Ci rammenta che il primo amore va tributato a sè stessi se in noi riconosciuto. Va concesso con parsimonia, per dare ad altri amore più sicuro e smagliante, per votarsi al benessere comune, per guardare il farsi e il disfarsi delle cose del mondo con tutte le gamme erotiche possibili: l'affezione per ciò che nasce e muore, la nostalgia dell'eternità, la cura dei giorni che, appena detti e narrati, già si immergono nell'ombra.

Cfr. D. Demetrio, Autoanalisi per non pazienti, pp. 43-63.

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